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Diritti / Opinioni

Le imprese coinvolte nell’occupazione della Palestina e la ricerca che fa paura

Altreconomia di giugno va in stampa durante i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Tra i “target” a Gaza city il 15 maggio 2021 anche la sede dei media internazionali come AP e Al Jazeera © Mohammed Talatene / IPA

Lydia de Leeuw e Pauline Overeem lavorano per il centro di ricerca olandese sulle multinazionali SOMO. Il loro impegno indipendente sulle aziende coinvolte in attività nei Territori palestinesi occupati gli è costato il divieto di ingresso in Israele. Occhi scomodi a tutela dei diritti umani. L’editoriale del direttore di Altreconomia

Tratto da Altreconomia 238 — Giugno 2021

Lydia de Leeuw e Pauline Overeem lavorano per il centro di ricerca olandese sulle multinazionali SOMO. Forti dell’esperienza maturata negli anni (dalle Nazioni Unite a Oxfam), si occupano di diritti umani, ruolo e impatti delle grandi aziende in aree fragili o in conflitto, trasparenza e responsabilità lungo le filiere produttive. Nel luglio 2018, al loro arrivo a Tel Aviv, vengono bloccate all’aeroporto Ben Gurion e sottoposte a interrogatori. La prima per una notte intera, la seconda per quattro ore. Poi sono espulse da Israele con il divieto di rimetterci piede fino al 2023 in quanto persone sgradite alle autorità. De Leeuw sarebbe stata attiva nel movimento Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), Overeem è invece allontanata senza “motivazione”.

Le due non si rassegnano e dopo quasi tre anni, grazie al supporto di uno studio legale israeliano sul campo (Michael Sfard), riescono a entrare in possesso delle carte a firma del ministero degli Affari strategici che sarebbero state alla base del loro divieto di ingresso. Tra le “cause” scoprono che c’è il lavoro di ricerca condotto per SOMO. “I nostri colleghi palestinesi e israeliani subiscono quotidianamente questo trattamento ostruzionistico”, commenta Overeem.

Tra l’attività più invisa c’è la pressione esercitata dal centro di ricerca affinché l’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite (Ohchr) -in forza della risoluzione 31/36 approvata dal Consiglio nel marzo 2016- si decidesse a pubblicare il database aggiornato delle aziende israeliane o con sede in Paesi terzi coinvolte in attività nei Territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est e le alture del Golan. Perché l’occupazione è anche un fatto economico.

La versione più recente dell’elenco Onu risale al febbraio 2020, fa i nomi di 112 imprese -che sono una goccia- e dà conto della tassonomia delle attività eufemisticamente ritenute problematiche, svolte tra il gennaio 2018 e l’agosto 2019. Si tratta della fornitura di “attrezzature e materiali per facilitare la costruzione e l’espansione degli insediamenti, del muro, e delle infrastrutture associate”, “attrezzature di sorveglianza e identificazione per gli insediamenti, il muro e i posti di blocco direttamente collegati agli insediamenti”, “attrezzature per la demolizione di abitazioni e proprietà, la distruzione di aziende agricole, serre, oliveti e coltivazioni”, di “servizi di sicurezza, attrezzature e materiali alle imprese che operano negli insediamenti”, “servizi e utilità per il mantenimento e l’esistenza degli insediamenti, compresi i trasporti”, di “operazioni bancarie e finanziarie che aiutano a sviluppare, espandere o mantenere gli insediamenti e le loro attività, compresi i prestiti per gli alloggi e lo sviluppo delle imprese”, “dell’uso di risorse naturali, in particolare acqua e terra, per scopi commerciali”, “l’inquinamento e lo scarico di rifiuti o il loro trasferimento nei villaggi palestinesi”, della “chiusura dei mercati finanziari ed economici palestinesi, così come le pratiche che svantaggiano le imprese palestinesi, anche attraverso restrizioni di movimento, vincoli amministrativi e legali”, “dell’utilizzo dei benefici e dei reinvestimenti delle imprese possedute totalmente o parzialmente dai coloni per sviluppare, espandere e mantenere gli insediamenti”.

Tolte quelle israeliane, sei erano statunitensi (Airbnb, Expedia Group, TripAdvisor, Booking Holdings, General Mills, Motorola Solutions), quattro olandesi (Booking.com, Tahal Group International, Altice Europe, Kardan), tre francesi (Alstom, Egis, Egis Rail), due britanniche (JC Bamford Excavators, Opodo, Greenkote), una thailandese (Indorama Ventures), una lussemburghese (eDreams ODIGEO). Nel dicembre 2020 SOMO e altre 30 organizzazioni per i diritti umani (tra le quali Amnesty International Spagna) hanno inviato all’Ohchr di Ginevra un dettagliato dossier per chiedere l’inclusione del colosso iberico Construcciones y Auxiliar de Ferrocarriles (CAF) nella “blacklist”. Lo stesso era avvenuto pochi mesi prima a carico della multinazionale HeidelbergCement.

La ricerca indipendente e i diritti umani fanno paura.

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