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Ambiente

Le fondamenta della Costituzione

“La Repubblica tutela il paesaggio” è uno dei principi sviliti della Carta. Solo una nuova etica condivisa potrà salvare l’Italia —

Tratto da Altreconomia 143 — Novembre 2012

Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, è membro di varie accademie, tra cui quella dei Lincei, di Berlino, di Monaco, del Belgio. È stato presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali e ha insegnato alla Scuola normale superiore di Pisa, ad Amburgo, Oxford, Washington, Madrid.
È autore di numerosissimi saggi, molti dei quali dedicati alla tutela del paesaggio come bene comune e alla Costituzione.

Professor Settis, il paesaggio italiano soffre.
Purtroppo lo stato di salute del nostro paesaggio è molto preoccupante. Nonostante la Costituzione, che chiama alla sua tutela esplicitamente, e una legislazione molto buona di cui siamo dotati, non viene curato a sufficienza. Questo dipende da numerosi fattori, che potrebbero sembrare contingenti ma che in realtà si dimostrano cronici. Innanzitutto, la confusione tra norme statali e regionali, i conflitti tra le une e le altre. In secondo luogo, il fatto che i comuni utilizzano il territorio per incassare gli oneri di urbanizzazione, che però (dopo una riforma firmata da Franco Bassanini) non servono più per le infrastrutture come prescriveva la “legge Bucalossi”, bensì per finanziarie la propria spesa corrente. Una pratica devastante, che si è radicata ed estesa a causa dei violenti tagli ai contributi dello Stato ai bilanci dei Comuni. Insomma, i Comuni devono svendere il territorio per poter sopravvivere.
Infine, le funzioni di tutela delle sovrintendenze non vengono condotte con efficacia, perché per esse vengono stanziati sempre meno risorse e dopo i tagli del luglio 2008 (voluti da Giulio Tremonti) mancano i mezzi finanziari. È una situazioni paradossale: siamo l’unico Paese al mondo nel quale all’altezza dei principi dichiarati e fondativi, come l’articolo 9 della Costituzione -che recita “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”- corrisponde la bassezza delle pratiche quotidiane. Credo infatti ci sia un problema culturale ancora più profondo. Quando la Costituzione fu scritta, nessuno poteva prevedere il boom economico, l’improvvisa crescita di benessere cui è andata incontro l’Italia, ma che ha anche portato alla devastazione del paesaggio. Con la crescita del benessere non è cresciuta la tutela del paesaggio.
Ecco, i cittadini non hanno capito -specie chi fa politica attiva- che la tutela del paesaggio non è un principio semplicemente estetico.
Questo -nonostante un movimento crescente di indignazione- è un tema di cui la maggioranza dei cittadini non ha coscienza: eppure i principi sono collegati tra loro e a ben altro. Per capire: la Corte costituzionale, sin da quando si posero le prime questioni ambientaliste negli anni 70, non trovando un corrispettivo diretto nella Carta (nel 1946 non si parlava ancora esplicitamente di ambiente ed ecologia), mise insieme la nozione di tutela del paesaggio e diritto alla salute (presenti nella Costituzione agli articoli 9 e 32) per definire “ambiente”. È una nozione tra le più avanzate del mondo. Il diritto alla salute fisica (di cui all’articolo 32) e il diritto alla salute mentale e culturale contro la devastazione dell’ambiente e del paesaggio. Con una serie di importantissime sentenze la Corte ha stabilito che la tutela dell’ambiente è un “valore costituzionale primario e assoluto”.

Quindi il paesaggio entra nell’orizzonte dei diritti più generali.
Il paesaggio è un bene comune. Devo dire che oggi “bene comune” è uno slogan talmente diffuso che forse si sta inflazionando, e per tanto va difeso anche dall’inflazione.
Ma è molto importante distinguere il “bene comune” al singolare, come valore, dai “beni comuni” al plurale, ovvero una tipologia di beni materiali. Il primo è il principio cui si ispira la Costituzione: non lo chiama mai così, ma utilizza espressioni come “utilità sociale”, o “interesse generale”.
I “beni comuni” invece sono quelli materiali, come l’acqua, l’aria, i beni culturali, e il paesaggio. Vanno distinti e i secondi vanno protetti in nome del primo. Un punto importante è capire che i beni comuni materiali (ancora: le strade, le montagne, i fiumi, gli edifici monumentali) costituiscono nel loro insieme una specie di portafoglio proprietario che appartiene ai cittadini intesi come comunità, e sono garanzia dei loro -nostri- diritti.  Ecco quindi il legame tra l’orizzonte dei diritti civili e quel qualcosa che ce lo garantisce. Che cosa se non l’esistenza di questo portafoglio comunitario, garantisce la sovranità del popolo, secondo l’articolo uno della Costituzione? Dobbiamo proteggere i beni comuni se vogliamo recuperare sovranità.

C’è contrasto col principio della proprietà privata?
Dobbiamo segnalare -visto che alcuni non vogliono rendersene conto-, che l’assoluta preminenza della proprietà privata è nella costituzione del 1848, lo Statuto albertino, non in quella di un secolo dopo. O meglio, nel 1948 si stabiliscono i limiti alla proprietà (è l’articolo 42), secondo i quali la proprietà privata è salvaguardata purché sia subordinata all’utilità sociale. E in caso di conflitto prevale la seconda. Negli ultimi anni invece si è diffusa la morale leghista/berlusconiana del “padroni a casa nostra”, che è contraria alla Costituzione. Ma dovremo ricordarci che la nostra “casa” è l’Italia, i padroni sono gli italiani. Il padrone di una pineta non è solo chi se la compra: c’è sempe un’altra componente proprietaria, quella del paesaggio e dell’ambiente, che ricade sotto l’interesse generale. Sovranità del popolo e sovranità nazionale coincidono, e solo questo mantiene l’unità del Paese. Questo si applica pienamente anche ai patrimoni artistico e archeologico, che rappresentano un insieme di “oggetti” i quali costituiscono una “riserva comunitaria” del popolo. Attenzione, anche quando sono di proprietà privata. Anche se un palazzo è di proprietà di un principe, secondo la legge italiana egli ha degli obblighi verso tutti, perché quel palazzo “appartiene” a tutti.  Il principio tanto più si applica nel caso del paesaggio, un patrimonio che non è un pulviscolo di parti singole, ma è un totale che è molto di più della somma delle parti. Lo sappiamo sin da quando l’Italia è stata considerata la meta preferita dei “Grand tour”, quando, nel ‘600, si diceva che il viaggio in Italia era un viaggio per la mente.

Perché l’economia non tutela, ma aggredisce il paesaggio?
Il capitalismo neoliberista, forma molto più aggressiva del liberismo tradizionale, non considera i beni comuni un valore da difendere, ma una merce da sfruttare. Cercando di penetrare anche in Paesi insospettabili, considera la terra come una merce da trattare alla stregua di tutte le altre. Una miniera da sfruttare, come ad esempio nel caso del land grabbing: si vendono immense estensioni di terreni agricoli, e la prima mossa è scacciare le popolazioni locali, magari per produrre cibo ed esportarlo. Un fenomeno globale particolarmente grave ed estremo, che accade in piccolo anche nel nostro Paese, dove il terreno agricolo viene usato per estensioni edilizie, o per installare pannelli solari a scapito dell’agricoltura. Una paradossale concezione di sfruttamento del suolo, che chiamano “sviluppo”.
Ecco una delle mitologie, delle menzogne: chiamare sviluppo la fine dell’agricoltura di qualità.
E in nome dello “sviluppo” abbiamo svenduto il territorio in favore di grandi opere e cementificazioni, condoni edilizi, sanatorie paesaggistiche, piani casa e altre misure illegali sancite da leggi compiacenti (si contano 63.194 deroghe stabilite per legge). Abbiamo promosso e difeso Tav e autostrade anche quando disseccavano fiumi e sorgenti. Abbiamo disseminato discariche nelle zone piú fertili della Campania, e dalla Lombardia alla Sicilia abbiamo incoraggiato il riuso dei rifiuti tossici nell’edilizia. Abbiamo protetto il contagio dell’aria e delle acque generato dalle industrie. “Crescita” c’è stata, certo: crescita per i soliti noti, mentre il benessere dei cittadini e l’occupazione continuano a calare.

Che ruolo ha la finanza?
La finanza entra in tutto questo processo, perché, in particolare di questi anni, ha introdotto due fattori nuovi, che hanno cambiato le regole del gioco. Il primo elemento è la divinizzazione dei mercati, concepiti come entità superiore che deve controllare ogni parte della vita, e davanti ai quali dobbiamo genufletterci. I mercati stanno “mangiando” la democrazia: nulla c’è di più anti democratico dei mercati. Così ho scritto a tal proposito nel mio ultimo libro (vedi box): “A ogni tentativo di porre temi democratici e ambientali al centro della politica, un agguerrito esercito di banchieri, politici, esperti d’ogni sorta erge prontamente una barriera insormontabile.
Essa ha un nome -mercato-, e basta dislocare entro il suo campo i problemi dell’ambiente, anche i piú gravi, per confinarli al margine. Nella sua tavola della legge è scritto un unico comandamento: essa sola regge il mondo, asservendo a sé ogni valore e ogni persona. Questa Grande Muraglia non è una cosa, è -a quel che pare- una Persona. Come si può spiegare altrimenti l’insistenza sulla ‘volontà dei mercati’, la ‘fiducia dei mercati’, le ‘ragioni dei mercati’, il ‘giudizio dei mercati’? Il mercato-persona ha dunque una razionalità, ha inclinazioni e sentimenti (la fiducia), condanna (la Grecia) e premia (la Germania); anzi stiamo andando ‘verso il giudizio universale, in cui i mercati ci chiederanno conto di tutti i nostri peccati’”. Il secondo fattore è che la finanza ha prodotto e messo in circolo enormi quantità di moneta virtuale, cui non corrispondono proprietà fisiche né industriali. Ancora qualche altra considerazione tratta dal mio ultimo libro: “In questo empireo inaccessibile ai profani l’economia reale (la produzione di beni tangibili) arretra davanti a un’economia smaterializzata, che produce profitti manipolando il denaro. L’economia reale richiede manodopera, dunque persone, ma anche sindacati e conflitti; meglio dunque la finanza, che può farne a meno e accumulare guadagni in uno spazio virtuale. La smaterializzazione del denaro è una vecchia storia, ma si presenta oggi con un vestito nuovo: la dimensione digitale, armata di tecnologia avanzata, in quotidiano updating. L’information technology è il dispositivo privilegiato dell’economia neoliberale. È ugualmente indispensabile a chi produce beni di consumo (dal cibo alle armi) e a chi manipola ‘prodotti finanziari’: crea, anzi, una sorta di camera di compensazione, un ambito comune entro il quale si innesca una doppia dislocazione, dal reale al virtuale e viceversa. In questo spazio, infatti, i titoli di borsa che corrispondono ad attività produttive si mescolano e si confondono con titoli finanziari, che non rappresentano nulla se non il loro valore nominale. Gli uni e gli altri hanno lo stesso, elusivo domicilio, la memoria dei server delle banche, e perciò sono oggetto di scambio fra loro.
Il contrasto fra democrazia e mercato può essere descritto come l’opposizione fra buon senso e senso comune. Ne parla efficacemente Alessandro Manzoni, in una pagina de ‘I promessi sposi’ poi commentata da Gramsci: ‘Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune’. In una Milano afflitta dalla peste, il senso comune ne attribuiva la colpa agli untori; il buon senso non poteva crederci, ma non osava aprir bocca. Il senso comune è il comodo alveo in cui adagiarsi, il credo dei “benpensanti”, cioè di chi non pensa in proprio, e perciò è pronto a ripetere opinioni e formule ready made; è il ricettacolo dei pregiudizi buoni per mascherare la realtà, per fondare il consenso. Il senso comune che ci assedia e ci pervade professa la fede cieca nei mercati, vi si piega anche a nostro svantaggio; dobbiamo dunque chiederci se il buon senso, o la ragione democratica del cittadino, debba fare altrettanto. Dobbiamo chiederci se la manipolazione del denaro e della crisi, l’occupazione dello Stato e la privatizzazione dei beni comuni, la metamorfosi del mercato del lavoro, la concentrazione della ricchezza in mano di pochi, la devastazione dell’ambiente e delle risorse naturali siano leggi di natura a cui piegarsi senza fiatare. Se libertà, giustizia, democrazia, uguaglianza, con gli altri diritti costituzionali dei cittadini (per esempio salute, lavoro, cultura), debbano essere anch’essi avviliti a merce e dislocati nel cupo orizzonte di un’economia necessariamente nemica del bene comune”.

I cittadini sono inconsapevolmente complici?
Il meccanismo è stato così veloce che sono convinto che la maggior parte dei cittadini non ne abbiano conoscenza. Il movimento degli “indignati” oppure i vari “Occupy” negli Stati Uniti d’America e in Europa rivelano un disagio profondo, dietro al quale però vedo poca analisi.
Si deve far comprendere che la soggezione verso la finanza crea deficit di democrazia. Il che mina il destino delle generazioni più giovani e di quelle future.
Quello che noi chiamiamo simpatia intergenerazionale o diritti delle generazioni future  non è altro che un modo diverso di dire “bene comune”.
Il popolo per definizione non è composto solo delle persone vive in questo istante, ma dai centenari, dai neonati, e da chi ancora deve nascere. Il bene comune è solidarietà intergenerazionale, principio sempre più valido sotto la spinta del disastro ecologico. Questa solidarietà non è una novità, ma impernia tutta la nostra tradizione giuridica. Scrivevo, ancora, nel mio libro: “Le ragioni del bene comune non sono un’opinione come un’altra, tutto sommato equivalente a quella di chi il bene comune lo calpesta ogni giorno. Chi vuol combattere in nome del bene comune ha dalla sua non i propri interessi da difendere, bensí l’enorme forza morale di chi pensa, disinteressatamente, non a se stesso ma agli altri. Perciò dobbiamo parlare in nome delle generazioni future, di un’idea alta e forte di comunità e di responsabilità individuale che faccia tutt’uno con la responsabilità intergenerazionale. In nome di un’etica condivisa, di cui dobbiamo indicare le radici, ricostituire l’essenza, argomentare i valori. Una tale etica ha bisogno di essere articolata in parole e in norme. Di essere trasmessa, come e quanto oggi non accade, attraverso la scuola e le altre strutture culturali (per esempio teatri e musei)”.

Indignarsi non basta. Sono le prime tre parole del suo ultimo libro.
Si deve acquisire consapevolezza. E i movimenti possono contribuire a questa necessità, mettendosi in rete tra loro.
Noi italiani abbiamo una Costituzione che garantisce al massimo il bene comune. Facendovi leva, dovremmo rivendicare la sovranità di cittadini e di popolo, e costringere chi ci governa a mettere in dubbio il dogma per cui quello che dicono le Borse domina la vita di tutti, anche se porta alla “macelleria sociale”. E non cito uno slogan, ma Mario Draghi, che ha utilizzato questa espressione in un discorso ufficiale, da governatore della Banca d’Italia.
Il sistema taglia i nostri diritti, anche quando sono sanciti dalla Costituzione, come nel caso del lavoro, all’articolo 4. Ma allora, quale Italia vogliamo? Abbiamo abolito la Costituzione senza dirlo? La salute, il lavoro, sono diritti dei cittadini che fanno parte di un orizzonte costituzionalmente garantito, eppure sono calpestati dai mercati. Perché i mercati sono più importanti di noi? Chi l’ha detto? Quando è stato deciso? In caso di contrasto fra i mercati e i diritti garantiti dalla Costituzione, chi deve vincere?
La “macelleria sociale” genera anticorpi, e l’indignazione è molto spesso in sintonia coi valori della Costituzione. I cittadini dovrebbero prenderne coscienza, ricordare che la Costituzione è un’arma suprema nelle loro mani. —

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