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Le elezioni, il non voto e la democrazia

Ormai esiste un "partito del non voto", con una propria ideologia fondata su (almeno) sette elementi indicativi, che vanno dalla sfiducia nei confronti della legge elettorale alla trasformazione di ogni consultazione in un plebiscito sul leader. Sono questi gli elementi su cui lavorare per riportare l’elettorato alle urne, secondo il commento del professor Alessandro Volpi

Alla luce degli esiti delle ultime tornate elettorali, sembra aver preso corpo ormai nel nostro Paese  il “partito del non voto”. Ciò che ci troviamo di fronte assomiglia molto ad un vero e proprio partito, perché ha raggiunto percentuali tali da andare ben oltre il mero astensionismo, acquisendo i contorni di una consapevole pratica condivisa e fin quasi organizzata. In questo senso, il partito del non voto dispone anche di una sua ideologia compiutamente delineata che può essere riassunta, in maniera un po’ sbrigativa, nella ferma convinzione che la rappresentanza indiretta sia incapace di svolgere proprio la sua funzione più naturale di rappresentazione degli interessi individuali e  collettivi.

L’ideologia del non voto tende così a sostituire ogni altra ipotesi programmatica che miri a qualificare l’appartenenza ad un partito. Decidere di non partecipare a nessuna forma di competizione elettorale significa prefigurare una società che non intende legittimare le formule istituzionali e dunque esprime la volontà di mettersi fuori dal perimetro di una democrazia ritenuta priva di sostanza reale. Non è semplice mettere in fila le ragioni che hanno condotto ad una situazione tanto critica, dal momento che si tratta di un profondo cambiamento sociale e culturale, tuttavia alcuni dati paiono evidenti.

1)    Pesano molto le ripetute delusioni nei confronti delle diverse leggi elettorali che si sono succedute nel tempo e che hanno progressivamente ridotto le possibilità di “libera scelta”. Neppure le primarie riescono più in molti casi a mobilitare gli elettori, perché hanno assunto, non di rado, i caratteri del rito preordinato, con risultati scontati e soprattutto con un debolissimo confronto sulle idee, sostituito da campagne elettorali fulminee dove il tratto dominante è la comparsa dei leader a fianco di candidati assai fragili.
2)    Non funziona più la forma del partito novecentesco, e questa non è una novità. Ma non funzionano neppure le forme di ultima generazione, dalle liste civiche, ai movimenti, ai partiti reticolari fino a quelli costruiti sui social network e sulle kermesse. Ad aver perso credibilità è, in estrema sintesi, l’idea stessa dell’organizzazione politica, a prescindere dalla sua fisionomia e persino dai contenuti. La battaglia iconoclasta dell’antipolitica ha finito per rendere obsolete subito anche le differenti manifestazioni di tale antipolitica non appena provavano a sedimentarsi in un’organizzazione.
3)    Esiste uno scollamento difficilmente sanabile fra le strutture della politica e i corpi intermedi della società, le associazioni, i sindacati che tendono anzi a coltivare una loro sostanziale autonomia rispetto al linguaggio politico dei partiti e a dotarsi di un proprio linguaggio politico, autosufficiente e in realtà assai ibrido che non esclude il non voto come espressione di chiaro conflitto. Certo, senza queste cinghie di trasmissione, risulta assai difficile portare masse di elettori a indicare nelle urne le loro appartenenza.
4)    Si è consolidata, inoltre, la sensazione diffusa dell’inutilità della pratica elettorale: di fronte al succedersi di governi tecnici e di governi non passati dal vaglio degli scrutini democratici, perché andare a votare? Perché votare per un inutile Parlamento europeo, o perché votare per elezioni regionali, dopo elezioni provinciali di secondo grado e alla luce di schieramenti politici difformi dal quadro nazionale? Perché andare a votare se poi la politica economica e sociale del Paese deve passare attraverso le maglie strette e ben poco democratiche della Commissione europea? Si tratta di domande ricorrenti che alimentano la già ricordata ideologia del non voto, che reclama una propria “purezza” nei confronti di ogni “contaminazione” antidemocratica. In una simile ottica, molto paradossale, per il membro del partito dei non votanti prevale la convinzione che la vera democrazia sia quella dell’astensione, non corrotta dall’inutile politica.
5)    Un ruolo importante è svolto, parimenti, dalla crisi dello Stato sociale, che -attraversato dalla ritirata del Welfare- torna ad essere il Leviatano vessatore, schiacciato dal peso stesso della sua mole burocratica e dalla incapacità di partorire soluzioni per la bulimia di regole prodotte al suo interno. Uno Stato a cui esprimere, con il non voto, indifferenza o più spesso aperta critica.
6)    Il partito del non voto trae forza dalla difficoltà di immaginare soluzioni realmente alternative, che completino e integrino l’“offerta politica”. Solo il non voto riesce a mobilitare le masse come gesto totalmente alternativo che si compie in sé stesso, senza bisogno di ulteriori passaggi ed è quindi la strada più facile per manifestare una posizione ideologicamente molto radicale.
7)    Non aiuta la partecipazione elettorale la sempre più evidente tendenza a trasformare ogni consultazione in un plebiscito sul leader politico, perché ciò inevitabilmente allontana la larga porzione del corpo dei votanti non affascinata da una simile, semplicistica polarizzazione.
   
Recuperare alla pienezza della partecipazione democratica coloro che gran parte degli astenuti richiede dunque la capacità di sconfiggere un vero e proprio partito e una visione ideologica, in grado di mietere consensi crescenti.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa
 

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