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Ambiente

Le condizioni della multinazionale

Il colosso minerario Alcoa minaccia di chiudere i suoi stabilimenti italiani, licenziando 2mila lavoratori tra Sardegna e Veneto. Nonostante utili milionari garantiti dalle bollette di tutti noi Le cronache delle ultime settimane nella vita di Franco sono apparse brevemente sui…

Il colosso minerario Alcoa minaccia di chiudere i suoi stabilimenti italiani, licenziando 2mila lavoratori tra Sardegna e Veneto. Nonostante utili milionari garantiti dalle bollette di tutti noi

Le cronache delle ultime settimane nella vita di Franco sono apparse brevemente sui giornali, e qualcuno può averle viste in tv. Franco è un dipendente dell’Alcoa di Portovesme (Cagliari), e coi suoi compagni, il 20 novembre, ha occupato sia pur per poco lo stabilimento di produzione di alluminio dove ha lavorato per venti anni, lui che adesso ne ha 44. Solo il giorno prima erano tutti a Roma, a manifestare davanti al ministero delle Politiche comunitarie (nella foto sotto), e per questo erano stati pure  caricati dalla Polizia. Il motivo è semplice: l’azienda ha minacciato di chiudere, entro la fine del 2009, gli stabilimenti italiani.
Alcoa, il datore di lavoro di Franco, è un colosso. Multinazionale americana del settore minerario, fattura qualcosa come 30 miliardi di dollari l’anno, e ha 87mila dipendenti sparsi in 44 Paesi (ma solo nel 2006 erano 123mila). In Italia ha due impianti: uno a Fusina, in provincia di Venezia, e l’altro, appunto, a Portovesme, nel Sulcis, Sudest sardo.
A novembre la notizia: a queste condizioni si chiude, dicono i vertici di Alcoa.
“Oggi nel Sulcis da Alcoa dipendono mille buste paga, tra dipendenti diretti e indiretti. Senza contare l’indotto. In tutta Italia siamo a oltre 2mila buste paga a rischio. Capisci che cosa significa in una zona come questa? 23 comuni, 135mila abitanti, 30mila disoccupati. Qui l’azienda più grande è l’Asl, e poi c’è l’Inps” dice Franco. Che coi suoi colleghi ha fatto ogni tipo di manifestazione pur di evitare la chiusura: impedire ai traghetti della Tirrenia di attraccare, bloccare la zona industriale, entrare nei consigli comunali (tutti i 23 Comuni del Sulcis hanno manifestato solidarietà ai lavoratori), occupare l’aeroporto. Due lavoratori sono rimasti a 62 metri di altezza per 10 giorni, sopra un silos dello stabilimento.
Ma niente da fare: ad oggi (il giornale va in stampa il 24 novembre, ndr) l’azienda non sembra voler tornare indietro, nonostante i tavoli aperti col governo che è riuscito finora a strappare solo una “sospensione” alla chiusura, tutt’altro che scongiurata.
Quali sono le condizioni senza le quali Alcoa non rimane in Italia? Sin da quando, nel 1996, Alcoa acquista gli stabilimenti dall’Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere (Efim), holding del sistema delle partecipazioni statali nel settore, l’azienda gode di un particolare regime tariffario per l’energia elettrica.
Ovvero, poiché il 41% del costo di un chilo di alluminio è energia, Alcoa paga l’elettricità 27 euro a MegaWattora, mentre nel resto d’Italia la media è 68 euro. “Per essere in linea con i costi dell’energia in Europa” è il motivo ufficiale. Tradotto: una legge italiana ad hoc permette ad Alcoa di avere uno sconto sulla bolletta energetica di svariati milioni di euro, per rimanere “concorrenziale” sul mercato.
Fin qui tutto chiaro. Quello che però nessuno, né giornali, né tv, tantomeno l’azienda hanno mai detto, è chi mette la differenza tra quanto Alcoa versa a chi gli fornisce energia, e quanto viene effettivamente pagato. La risposta è facile: ci pensa lo Stato italiano. E da dove arrivano quei soldi? Dalle bollette di tutti noi. Guardate bene la vostra: se cercate la componente A4 della tariffa che pagate leggerete che fa parte degli “Oneri generali del sistema elettrico” e riguarda “regimi tariffari speciali”. Nella fattispecie, questi “regimi speciali” sono uno sconto ripartito tra Alcoa e le Ferrovie del valore annuo di circa 500 milioni di euro.
Ora, il problema è che questa agevolazione avrebbe dovuto terminare nel 2005, ma è proseguita nonostante il richiamo dell’Unione europea, che ravvisa per gli anni tra il 2006 e il 2009 un “aiuto di Stato”, incompatibile col regime concorrenziale del mercato unico. La Commissione europea ha quindi sanzionato Alcoa con una multa di 420 milioni di euro, poi ridotti a 270, imponendo che il regime agevolato abbia immediatamente termine.
Alcoa non ci sta, né a pagare, né a cambiare tariffe. Piuttosto, si chiude.
E questo, nonostante in questi 13 anni i dipendenti siano diminuiti di un terzo e il fatturato aumentato. Non solo, l’azienda ha macinato utili ogni anno: 50 milioni nel 2008, 110 nel 2007.
Tutti guadagni garantiti dalle nostre bollette e finiti oltreoceano, in Pennsylvania, dove Alcoa ha la sede principale. Ecco le condizioni “irrinunciabili” senza le quali Alcoa chiude i battenti in Italia e se ne torna a casa: fare utili grazie alla bolletta degli italiani.
In mezzo, il destino dei lavoratori: “Qui non abbiamo altro che il polo industriale -racconta Franco-. Il polmone economico del Sulcis è il polo industriale. Parliamo davvero di vita e di morte, di un territorio che rischia di essere cancellato”.

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