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Diritti / Intervista

Le comunità avvelenate dalla violenza invisibile dei Pfas in Veneto

Una manifestazione nell’ottobre 2019 a Venezia. Le “Mamme no Pfas” sono un’organizzazione del basso che si batte per vedere riconosciute le responsabilità della contaminazione da Pfas © Federico Bevilacqua

Il disastro ambientale che interessa 30 Comuni nelle province di Vicenza, Verona e Padova porta con sé anche ricadute psicosociali. Una ricerca dell’Università di Padova dà visibilità ai colpiti e lancia un monito alle istituzioni

Tratto da Altreconomia 240 — Settembre 2021

Aprire il rubinetto e aver paura dell’acqua che scorre; respirare l’incertezza del futuro, delle conseguenze portate dal vivere in un corpo e in un ambiente inquinato; affrontare il senso di colpa per aver messo a repentaglio la vita dei propri figli. È la violenza invisibile subita dalle migliaia di cittadine e cittadini colpite dall’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nelle acque del Veneto per cui a inizio luglio 2021 è cominciato il procedimento penale nei confronti dell’azienda Miteni, situata a Trissino (Vicenza) accusata di essere la responsabile del disastro ambientale che attualmente interessa 30 Comuni delle province di Vicenza, Verona e Padova, coinvolgendo circa 350mila cittadine e cittadini, una cifra destinata ad aumentare vista la dimensione della falda acquifera inquinata.

Mentre all’interno dell’aula della Corte d’Assise si discuteva su responsabilità penali e amministrative, relazioni di “causa-effetto” tra inquinamento e malattie sviluppate dalle parti in causa, due ricercatori del Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata (Fisppa) dell’Università di Padova, Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto, hanno pubblicato i risultati della loro ricerca sul campo nel libro “Cattive acque. Contaminazione ambientale e comunità violate” (edizioni Padova University Press). Un libro che, attraverso le voci di chi è stato colpito dalla violenza subdola e silente dei Pfas, restituisce al lettore la drammaticità e gravità degli effetti che i disastri ambientali hanno su comunità, famiglie e persone colpite.

Professor Zamperini, perché avete ritenuto importante svolgere questa ricerca?
AZ L’idea era di occuparci del fenomeno dei disastri ambientali in modo parallelo a ciò che solitamente si fa in questi casi. Molte volte le vittime di questi disastri sono invisibili e riassunte al massimo nei tassi di incidenza di alcune patologie connesse alle forme di inquinamento. Il libro vuole restituire visibilità a cittadine e cittadini che improvvisamente si trovano costretti a vivere un tempo di vita incerto e contaminato. Oltre ai danni fisici e biologici che in qualche modo, grazie a particolari analisi di laboratorio, possono essere più facilmente certificati, c’è il versante dei “costi indiretti”, psicosociali, che hanno un peso, a nostro parere, molto importante.

Come è stata vissuta, nelle zone inquinate da Pfas del Veneto, la presa di consapevolezza di abitare in un ambiente ostile?
AZ Serve sottolineare che di fronte ai disastri ecologici, come il caso in questione, non si ha una data certa di inizio della contaminazione. Si riconduce genericamente all’insediamento della fabbrica Miteni, certo. Però a differenza di un terremoto, ad esempio, non si ha un momento acuto che crea danni seguito da una fase di assestamento e di ricostruzione. Proprio l’incertezza negli effetti e l’impercettibilità del fenomeno hanno conseguenze devastanti sulle comunità colpite. Bisogna tenere conto che la zona interessata è un territorio rigoglioso del Veneto dove molte famiglie hanno fatto anche un investimento per andare a viverci. Inizialmente, quando filtrano le prime notizie c’è incredulità da parte dei cittadini. A seguito delle pubblicazioni dei primi rapporti, dello svolgimento di eventi pubblici in cui gli esperti dichiarano che una sostanza nociva sta infiltrando cibi e acqua, tutto smette di diventare una questione personale, un vociare che passa di casa in casa. È il momento della “perdita dell’innocenza”, la presa di consapevolezza di un problema che travolge i progetti esistenziali delle persone. I cittadini sono impreparati a gestire un nemico così subdolo che si nasconde nell’acqua: in molte testimonianze c’è il pensiero che questa sostanza nociva sia una sorta di ladro che ti entra dal rubinetto e, derubandoti, va ovunque nella tua casa. 

Nel libro raccontate che, soprattutto per chi è genitore, all’incertezza e alla paura si aggiunge anche un forte senso di colpa. Perché?
AZ Pensiamo a chi ha deciso di far vivere i loro figli nel verde, magari scavando il pozzo privato nel proprio terreno con l’idea che l’acqua fosse salutare. Scoprono invece che proprio scendendo verso il basso, nelle falde più profonde, l’inquinamento da Pfas è più forte. Si aggiunge l’attaccamento alla terra in cui si è nati e cresciuti. Una madre ci raccontava: “Se non fosse la casa dei miei genitori e se là fuori, nel giardino dove ho piantato gli alberi, ogni pianta non portasse il nome dei miei figli, io me ne andrei subito via di qua”. Forse anche per questo motivo, come forma di resistenza, nascono alcuni gruppi spontanei organizzati a livello locale che con il tempo salvano le comunità evitando che perdano il senso di orientamento: persone comuni, con pochissime competenze scientifiche, cominciano a studiare il fenomeno e diventano punti di riferimento per gli altri cittadini. Si sviluppano nuovi processi deliberativi che pongono le decisioni riguardanti la collettività all’attenzione e alla discussione pubblica. Cittadini che si sentono traditi diventano protagonisti ed evitano che la “delega ad altri” si trasformi in una subdola e rinnovata sudditanza verso le istituzioni.

“In molte testimonianze c’è il pensiero che questa sostanza nociva sia una sorta di ladro che ti entra nel rubinetto e, derubandoti, va ovunque nella tua casa”

Che ruolo gioca il gruppo delle “Mamme No Pfas” nella nascita di queste rinnovate forme di democrazia partecipata?
AZ La nascita del gruppo ha avuto un forte impatto a livello di comunità. È un fenomeno che abbiamo riscontrato anche in altre situazione analoghe: l’essere madri come momento genetico della discesa in campo, come se l’evento negativo avesse fatto rinascere queste donne con nuove identità. Non hanno esperienza pregressa ma si rendono conto che la loro vita, quella dei loro figli, è a rischio. Davanti ad argomenti stringenti dove non c’è in gioco la politica partitica ma della vita umana, della convivenza, della sostenibilità del proprio ambiente di vita, qualsiasi discorso minimizzante da parte delle istituzioni viene meno perché le madri continuano ad insistere. Se qualcuno ribatte dicendo “Non sono io il responsabile”, loro persistono, tengono la posizione e vanno a cercare le risposte altrove fino a quando non le trovano. Il gruppo cresce, con il passare del tempo, con un’articolazione che si sviluppa attraverso una sorta di costellazione di satelliti in ogni paese colpito. È un movimento dal basso che disturba. Le partecipanti vengono tacciate di essere delle pazze allarmiste da chi cerca di minimizzare le conseguenze e di non attirare attenzione mediatica. I disastri ecologici, infatti, corrodono le comunità perché mettono in gioco interessi contrastanti: pensiamo a cosa comporti la vicenda dei Pfas per un agricoltore e la sua famiglia che hanno investito tutto su coltivazioni a chilometro zero. Quel movimento di mamme però ha salvato la comunità.

“Le istituzioni devono saper essere vicine ai cittadini attraverso ogni servizio e strumento attivabile cercando di non posizionarsi in modo paternalistico”

Lei pensa che, in quelle comunità, la fiducia dei cittadini verso le istituzioni sia persa per sempre?
AZ La rottura del patto fiduciario tra istituzioni e cittadini è uno dei nodi più problematici della vicenda: nei luoghi colpiti dalla tragedia lo si tocca con mano. La fase iniziale è stata vissuta con grande difficoltà soprattutto perché c’è la tendenza, da parte delle istituzioni, di muoversi solamente su dati epidemiologici conclamati a differenza di una madre, ad esempio, che agisce sulla base di preoccupazioni. Le due esigenze devono trovare il modo di incontrarsi davanti a problematiche del genere e, soprattutto all’inizio, ciò non è avvenuto. Anzi si sono creati cortocircuiti comunicativi che non hanno aiutato. Il patto fiduciario va ricostruito e ci vorrà tempo. Non basta però, in questi frangenti, offrire interventi episodici: l’installazione dei filtri per l’acqua, la costituzione come parte civile dei Comuni al processo sono segnali importanti ma serve soprattutto mantenere una capacità di ascolto sulle diverse problematicità delle persone che possono evolvere nel tempo e che non hanno una semplice e sola fase acuta circoscritta. Serve investire sulla bonifica ambientale e le istituzioni devono saper essere vicine ai cittadini attraverso ogni servizio e strumento attivabile cercando di non posizionarsi nei loro confronti in modo paternalistico, guardandoli dall’alto verso il basso ma, come scriviamo nel libro, stando di fianco e di fronte. 

Precauzione e prevenzione. Quanto sono presenti, oggi, questi due termini nel processo decisionale della politica?
AZ Troppo poco. Quando si interviene sull’ambiente immettendo nuove sostanze e prodotti dagli effetti poco conosciuti, il principio di precauzione è fondamentale. Non si possono fare esperimenti sulla vita delle persone e questa vicenda ci insegna l’inadeguatezza del senso di onnipotenza per cui si pensa che tutti i problemi, prima o poi, troveranno una soluzione. Non è così. Troppo spesso i costi della contaminazione ambientale sono presi in considerazione solo “dopo”, quando l’autorizzazione a produrre ha permesso di inquinare impunemente, con la complicità di controlli assenti o inadeguati, e i danni ormai sono già stati fatti. Serve superare la logica che considera esclusivamente il profitto senza tener conto delle conseguenze ambientali prodotte da una mano umana sempre più devastante. 

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