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La buona accoglienza passa anche dal lavoro. L’Italia non l’ha capito

Breno (Bs), marzo 2017. Edoardo Calvetti falegname, con i ragazzi rifugiati ai quali insegna il lavoro durante le ore del tirocinio presso la sua falegnameria - © Michela Taeggi

I migranti in attesa di protezione internazionale possono lavorare trascorsi due mesi dalla richiesta. Ma tempi, burocrazia e crisi occupazionale complicano l’inserimento. Rischiando così di consegnarli allo sfruttamento dei caporali

Tratto da Altreconomia 197 — Ottobre 2017

Mamadou, 22 anni, è arrivato in Italia nell’ottobre 2014. Oggi vive a Darfo, un paesino della Valle Camonica. Ogni mattina inforca la bici per andare al lavoro. Una leggera cadenza bresciana rivela i mesi trascorsi in provincia, prima all’interno del progetto di accoglienza gestito dalla cooperativa “K-pax” (k-pax.eu), poi come tirocinante presso una ditta che realizza manufatti, infine come dipendente della stessa azienda. Dal 2015 a oggi, la cooperativa ha accolto 230-250 richiedenti asilo nei suoi progetti in provincia di Brescia. “Attualmente abbiamo 12 assunti e altrettanti in tirocinio con buone possibilità di ottenere un contratto -spiega Francesca Pandocchi, responsabile dell’area formazione e lavoro di ‘K-pax’-. I numeri non sono altissimi, ma siamo pur sempre in una piccola valle. E negli ultimi mesi il mercato del lavoro sembra aver ripreso a girare”. “Il numero di richiedenti asilo arrivati in Europa negli ultimi tre anni rende necessario pensare alla gestione dei flussi anche in termini economici -spiega ad Altreconomia Iván Martín, membro dell’Interdisciplinary research group on immigration dell’università Pompeu Fabra di Barcellona-. Oggi sono rifugiati, aiutarli a diventare prima lavoratori e poi cittadini conviene a tutti”.

“Quando il mercato del lavoro e il sistema di accoglienza non funzionano il passo verso lo sfruttamento è breve” (Marco Ormizzolo)

Tra il gennaio 2015 e l’agosto 2016 sono arrivati in Europa circa due milioni 300mila richiedenti asilo. In Italia, al 31 dicembre 2016 erano oltre 176mila i migranti inseriti nel circuito di accoglienza. Di fronte a questi numeri, negli ultimi due anni si sono moltiplicati studi per valutare l’efficacia dei processi di inserimento lavorativo e sociale dei rifugiati in Europa. Anche la società di consulenza americana “McKinsey” ha analizzato il tema: “Gestire i percorsi di accoglienza e integrazione -si legge nel rapporto A road map for integrating Europe’s refugees-. Migliorare le condizioni per questa massa di rifugiati può portare un contributo al Pil di 60-70 miliardi di euro l’anno entro il 2025. Nonché un potenziale impulso demografico che potrebbe andare a vantaggio delle società che invecchiano”.

Far lavorare i richiedenti protezione conviene. Con questo obiettivo, l’Italia ha recepito una direttiva europea (2013/33/Ue) entrata in vigore il 30 settembre 2015 che mira ad agevolare l’accesso al mercato del lavoro per i richiedenti protezione internazionale, che possono iniziare a lavorare regolarmente trascorsi due mesi dalla presentazione della domanda. I richiedenti asilo lavoratori censiti dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali è raddoppiato tra il 2015 e il 2016, passando da 11.775 (di cui 4.473 attivati dopo il 30 settembre) a 25.584. Mentre nei primi sei mesi del 2017 i lavoratori richiedenti asilo sono stati 22.595. Purtroppo, non tutti questi contratti sono stati confermati: ai primi di settembre 2017 erano 20.726 i richiedenti asilo con un contratto di lavoro in mano, di cui 18.346 erano stati attivati dopo il settembre 2015.

Una classe di rifugiati durante la lezione di italiano tenuta da Michele Pizio, operatore presso la cooperativa sociale “K-pax” - © Michela Taeggi
Una classe di rifugiati durante la lezione di italiano tenuta da Michele Pizio, operatore presso la cooperativa sociale “K-pax” – © Michela Taeggi

Trovare un lavoro in un arco di tempo così breve non è semplice. Bisogna fare i conti con i problemi linguistici, con la crisi del mercato del lavoro e con la burocrazia. Ad esempio la prassi di assegnare ai richiedenti asilo un codice fiscale provvisorio formato solo da numeri. “Diverse banche dati e piattaforme informatiche non lo riconoscono, oppure non lo accettano”, spiegano dallo Sprar, il Servizio di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Rendendo così difficile non solo l’inserimento lavorativo, ma anche l’attivazione di tirocini formativi. Il codice fiscale alfanumerico viene assegnato solo al riconoscimento della protezione internazionale. “Ma in media occorre attendere otto mesi solo per l’audizione in commissione”, spiegano dallo Sprar.

“Inoltre diverse questure impiegano molto tempo, anche un anno, per rinnovare i permessi di soggiorno semestrali per richiesta asilo”, aggiunge Yasmine Accardo, referente della rete LasciateCientrare. E con un documento scaduto è difficile avere un contratto di lavoro o anche solo un tirocinio. Ma non è finita: bisogna fare i conti anche con quei Comuni che non rilasciano la residenza anagrafica ai richiedenti asilo (un problema che riguarda soprattutto gli ospiti dei Centri di accoglienza straordinaria) e di conseguenza nemmeno la carta di identità. Un documento che viene richiesto da molti datori di lavoro oltre che dalle banche, per aprire il conto corrente su cui versare lo stipendio. Mappare le dimensioni di questa situazione è quasi impossibile: “Tutto cambia da un comune all’altro e anche tra le varie questure ci sono comportamenti diversi”, spiega Accardo. “Quando il mercato del lavoro e il sistema di accoglienza non funzionano -spiega Marco Ormizzolo, responsabile scientifico dell’associazione InMigrazione- il passo verso lo sfruttamento è breve”. Come è accaduto nella Sila cosentina, dove un gruppo di richiedenti asilo accolti in un Cas a Camigliatello (Cz) veniva prelevato dalla struttura per essere impiegato nei campi con una paga di 20 euro per 11 ore di lavoro al giorno. L’operazione “Accoglienza” ha portato nel maggio 2017 all’arresto di 14 persone, accusate a vario titolo di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. E non si tratta di un caso isolato: il fenomeno del caporalato ha assunto dimensioni ancora più ampie con l’arrivo sulle nostre coste di migliaia di profughi e migranti che “in virtù delle loro condizioni disagiate, al limite della disperazione, costituiscono facili prede di imprenditori agricoli senza scrupoli”, si legge nelle carte dell’inchiesta. Uno scenario molto simile in provincia di Latina, dove l’agricoltura è uno dei settori trainanti. Latina è un caso da manuale: da un lato centri di accoglienza di medie e grandi dimensioni collocati in aree peri-urbane o agricole, dall’altro un territorio segnato da episodi di grave sfruttamento lavorativo. “Testimoni raccontano di 14 ore al giorno di lavoro raccogliendo frutta e verdura per 20 euro: si rendono conto di essere sfruttati, ma quei soldi gli servono -spiega Ormizzolo-. Siamo di fronte al classico esempio di una relazione perversa tra cattiva accoglienza e sfruttamento lavorativo”.


IN DETTAGLIO
TIROCINI EXTRACURRICOLARI: UN’OPPORTUNITÀ DA NON SPRECARE

La decisione della Toscana di non accettare (a partire da giugno 2017) l’autocertificazione dell’assolvimento dell’obbligo scolastico per l’avviamento di tirocini extracurriculari da parte dei Centri per l’impiego (Cpi), rischia di andare a rimpinguare le fasce di popolazione bisognosa di assistenza socio-economica. Nella Regione, infatti, sono ospitati nei centri di accoglienza più di 13.600 richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale o umanitaria (di cui circa 900 negli Sprar) che o non hanno studiato o non hanno con sé un certificato. Le istituzioni sembrano non esserne consapevoli, tanto che l’accordo stretto con i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (Cpia) per la realizzazione di percorsi per l’assolvimento dell’obbligo d’istruzione non stabilisce né i tempi e le modalità né agevolazioni per gli stranieri dei centri di accoglienza. I tirocini extracurriculari hanno realmente facilitato l’ingresso nel mondo del lavoro degli svantaggiati, immigrati inclusi. “Con l’attuale crisi economica, per un extracomunitario è difficile trovare un lavoro per vivere in autonomia- spiega un’operatrice del Cpi di Firenze-. Per cui per lui i tirocini sono fondamentali: in più della metà dei casi questi sono prorogati o trasformati in contratti. Molti immigrati, pur avendo un buon italiano, hanno studiato poco o non hanno con sé titoli di studio, e hanno bisogno di fare esperienza e di farsi conoscere dalle aziende. Così i Cpi fino a maggio hanno ovviato al problema dell’assolvimento dell’obbligo scolastico accettando delle autocertificazioni”. Oggi però questo non è più possibile. Come spiega un’operatrice di un centro Sprar di Firenze “ci troviamo con ospiti che hanno un buon livello di italiano, hanno frequentato dei corsi professionali, ma non hanno abbastanza esperienza per trovare lavoro e non possono fare un tirocinio extracurriculare. Questi tra qualche mese dovranno uscire dal progetto e mantenersi. Se non troveranno un lavoro come faranno? Finiranno in strada o, nel migliore dei casi, troveranno un lavoro irregolare”. Pablo Nardoni, direttore del Centro, aggiunge “molti dei beneficiari dello Sprar di Firenze non possono dimostrare il loro grado di istruzione. Quando entrano qui hanno 6 mesi di tempo (prorogabili per altri 6 solo in casi particolari) per imparare l’italiano e acquisire gli strumenti necessari per trovare un lavoro e un alloggio. Il tirocinio finora era una risorsa importante. Basta pensare che tra il 2016 e i primi mesi del 2017 su circa 30 tirocini attivati, 8 si sono trasformati in contratti, mentre altri sono stati prorogati. Sembrano numeri bassi– conclude- ma per il nostro progetto, che ospita 55 persone, di cui molte 19enni e senza esperienze lavorative, sono ottimi. Però se per farlo è necessario frequentare un corso di 1° livello (della durata di 400 ore e uno di circa un anno di 2° livello per l’assolvimento dell’obbligo scolastico, il tirocinio non potrà più rientrare nel percorso di integrazione e sarà un grosso problema”.

Alessandra Modica

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