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Economia / Opinioni

Lavorare meno per vivere meglio

© Alex Kotliarskyi-Unsplash

Dalla Spagna all’Islanda la settimana “breve” è già realtà. Molti i benefici per i lavoratori e anche la tanto invocata produttività ne sta giovando. Ma in Italia tutto tace. La rubrica a cura dell’Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale

Tratto da Altreconomia 240 — Settembre 2021

La pandemia ha portato diversi cambiamenti nell’organizzazione del lavoro: il cosiddetto “lavoro agile” è diventato pratica corrente per molte lavoratrici e lavoratori, e ciò -secondo alcune ricerche esplorative (Ires Veneto, 2020)- ha determinato un miglioramento della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, un incremento del benessere generale e una convenienza economica determinata dal minor tempo passato fuori di casa. La modifica dei “luoghi” di lavoro è stato un fenomeno inatteso, determinato dal Covid-19, e per tale ragione non vi erano studi che potessero guidare la transizione verso l’utilizzo massiccio di “lavoro agile”.

Invece, già prima della pandemia un altro aspetto è stato oggetto di un dibattito crescente, vieppiù attuale: la riduzione dell’orario di lavoro (con o senza parità di salario). Già a partire dalla fine degli anni Novanta, la Francia introdusse una legge che imponeva la settimana lavorativa di 35 ore (con possibili deroghe, cresciute nel corso del tempo) i cui risultati -complessivamente- sono stati molto positivi in termini di miglioramento del benessere dei lavoratori, creazione di occupazione e incremento della produttività oraria.

Nel marzo 2021 anche la Spagna ha annunciato una sperimentazione che prevede l’introduzione della settimana lavorativa di 32 ore per circa 5mila lavoratrici e lavoratori. Infine, anche la Finlandia ha posto il tema al centro della propria agenda politica, e numerose aziende hanno avviato simili sperimentazioni con risultati estremamente incoraggianti anche sotto il profilo della produttività, in alcuni casi cresciuta su base oraria del 30%. In tempi recenti, il progetto più ambizioso ha riguardato l’Islanda.

Nel giugno 2021 è stato pubblicato il rapporto “Going public: Iceland’s journey to a shorter working week contenente i risultati di sperimentazioni di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario nell’amministrazione comunale di Reykjavík e nell’amministrazione centrale del governo. In entrambi i casi, la riduzione è stata del 10% (quattro ore settimanali sulle 40 contrattuali) e i progetti hanno avuto una durata pluriennale (rispettivamente cinque e quattro anni).

Secondo la ricerca, i vantaggi in termini di benessere dei lavoratori sono stati molteplici: riduzione dello stress lavorativo e, di riflesso, maggiore serenità in famiglia; più tempo speso nella sfera amicale; più tempo per coltivare gli interessi personali extralavorativi; maggiore disponibilità di tempo per organizzare le attività domestiche in modo soddisfacente. Anche la produttività oraria è migliorata: pur in assenza di dati puntuali, pare ragionevole una stima prudenziale del 10% di incremento su base oraria. Il caso islandese pare confermare l’efficacia di un provvedimento che rappresenterebbe un gioco a somma positiva.

Purtroppo, in Italia il dibattito non ha ancora preso piede come avrebbe dovuto: nel 2019, quando Pasquale Tridico -allora neopresidente dell’Inps- sostenne le virtù della riduzione dell’orario di lavoro, venne sostenuto da pochissimi e criticato da molti. Pochi mesi dopo l’esplosione della pandemia mise al centro dell’agenda politica altri temi; tuttavia, ora che la situazione è in (lenta) normalizzazione, si dovrebbe fare tesoro delle esperienze straniere e avviare una riflessione seria che discuta i benefici di una settimana lavorativa di 32 o 35 ore, dando possibilmente avvio a un processo legislativo innovatore.

Paolo Graziano insegna Scienza Politica all’Università degli Studi di Padova ed è co-coordinatore di OCIS, Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale

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