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Latte macchiato

Il nostro Paese non ha mai "splafonato" le quote latte imposte dalla Commissione europea. Un "mero errore di natura contabile" ha gonfiato i numeri della produzione italiana, facendo scattare multe dall’Ue per oltre 2,5 miliardi di euro in dieci anni. A farne le spese, gli allevatori italiani, l’anello più debole di una filiera non equilibrata

Dal 2015 -anno dell’Expo che si terrà a Milano centrato sull’alimentazione- il nostro Paese rischia di rimanere senza latte. È prevista per il 31 marzo 2015 infatti la fine del regime del contingentamento di produzione introdotto 30 anni fa dalla Commissione europea (le cosiddette “quote latte”) e la conseguente apertura al mercato. Un altro colpo per il più rilevante settore alimentare italiano, quello lattiero -che nel 2009 stime prudenti valutavano in 15 miliardi di euro-, che già oggi sta ipotecando il suo primo anello della filiera, gli allevatori. Quelle stesse aziende di allevamento di bovino da latte che, stando al VI Censimento dell’agricoltura condotto dall’Istat nel 2011, risultano essere 50.337 (nel 1993 erano 140.878, dati Eurostat), con una media di 32 capi ciascuna, e concentrate per il 64,9% a Nord. Nel 2012 sono state capaci di “consegnare” 10,8 milioni di tonnellate di latte, di cui il 41,5% solo in Lombardia.
 
L’eredità delle quote. Le quote latte sono state introdotte in Europa su indicazione del Consiglio dei ministri dell’Agricoltura della Comunità nel 1984. L’obiettivo era quello di garantire un prezzo “protetto” ai produttori scongiurando il rischio di sovrapproduzione. Il Paese che avesse “splafonato” rispetto alla propria quota nazionale assegnata, oltrepassando il limite posto in tonnellate di latte annue prodotte, ne avrebbe risposto in sede europea: pagando multe salate.

Dalla sua nascita alla vigilia dei 30 anni, però, il sistema quote ha mostrato più di una criticità. A partire dagli inizi. Chi all’epoca trattò per conto del nostro Paese (il ministro dell’Agricoltura era Filippo Maria Pandolfi) non si accorse ad esempio che la cifra concordata con la Commissione (8,23 milioni di tonnellate di latte conferito ogni anno) era pesantemente al di sotto del regime produttivo italiano di oltre 12 punti percentuali. Vizio d’origine -costato all’erario 1,8 miliardi di euro- che caratterizzerà tutta la vicenda “quote”, giunta a una svolta in occasione della campagna lattiera del 1995/1996. Da quel momento, infatti, le responsabilità del superamento della quota nazionale (le multe) si spostano dalle spalle dell’erario direttamente a quelle dei produttori “eccedentari”, che violano la soglia fino all’annata 2008/2009, accumulando sanzioni per 2,6 miliardi di euro circa.

Il bilancio del sistema l’ha tracciato la Corte dei Conti che, nel dicembre 2012, ha dedicato al tema un’indagine specifica. “La confusione nella determinazione dell’esatta produzione di latte a livello nazionale per l’inattendibilità dei dati forniti dall’amministrazione e dalle categorie di produttori […] la persistente assenza di volontà politica nell’affrontare e risolvere il problema dei recuperi ed il lungo periodo di carenza dei controlli” sono costati all’Italia, secondo la Corte, oltre 4,4 miliardi di euro. Tradotto: gli allevatori “furbi”, violando le quote, avrebbero danneggiato il Paese. Un ritornello tanto conosciuto quanto "stonato".

 
I numeri scremati. A smentirlo è un processo in corso a Roma che ha smontato i dati su cui si è basata la Corte dei Conti, e una buona fetta dell’opinione pubblica italiana, per giudicare il “sistema quote”. Il nostro Paese infatti non ha mai “splafonato” la quota nazionale complessiva, vedendosi quindi contestare una multa inesistente pari a 2,6 miliardi di euro per le annate comprese tra il 1995-96 e il 2008-09. Un danno enorme per gli allevatori e i contribuenti italiani frutto di un “mero errore di natura contabile”, secondo il Gip Giulia Proto, che il 15 novembre di quest’anno ha confermato l’archiviazione per truffa contestata ad alcuni funzionari dell’Agenzia governativa per le erogazioni in agricoltura. L’Agea è quella che avrebbe dovuto quantificare la produzione nazionale comunicandola successivamente alla Commissione europea. Un “errore” che sarebbe stato poi aggiustato attraverso l’alterazione dei "criteri di calcolo del numero dei capi potenzialmente da latte”, e cioè un algoritmo. Un “trucco” che secondo il Gip “merita approfondimento”: avrebbe infatti innalzato innaturalmente il “limite massimo di età passiva da 120 mesi dell’animale a 999 mesi (ossia 82 anni di età)”.

Un clic che è valso almeno 2,6 miliardi di euro e che ha spinto il Gip Proto a restituire gli atti al pubblico ministero specificando che “se è vero che non può ipotizzarsi il reato di truffa non altrettanto può dirsi in ordine al reato di falso”. Ciò significa che il nostro Paese non ha un quadro esatto di quanto latte sia stato prodotto negli ultimi anni, risultando peraltro il Paese comunitario con la più ampia forbice tra quota assegnata e consumi interni: già nel 1997 la produzione copriva soltanto il 57% dei consumi, lasciando il restante 43% a latte di provenienza estera. Il tempo ha dato quindi ragione il Comando carabineri delle Politiche agricole e forestali coordinato dal tenente colonnello Marco Mantile, accusato al tempo della sua indagine (2010) dal ministero competente di aver determinato soltanto ritardi nei pagamenti delle rate.

Confusione che non è dunque colpa degli allevatori, che si sono visti contestare quantità mai prodotte a copertura probabilmente di un’ingente quota proveniente dall’estero, in nero, a prezzi stracciati e non sottoposta a vincoli qualitativi. “Le quote hanno avuto soltanto l’effetto di dividere il mondo agricolo”, riflette amaramente Paolo Cova, medico veterinario e deputato del Partito democratico -tra i pochissimi a sollevare il tema in aula-, mentre ci accompagna da alcuni allevatori delle province di Milano e Pavia, da Carpiano (Mi) a Landriano (Pv). C’è chi ha chiuso l’attività perché strangolato, chi ha comprato -fidandosi- le quote, chi le ha affittate, chi non le ha mai pagate perché insospettito ed è finito a processo (e domani farà ricorso). Un disastro che ha la forma delle 500mila vacche perse in Italia nel giro di 9 anni, perché non più mantenibili, di cui 60mila solo nella provincia di Lodi. E una beffa per gli allevatori, i quali, secondo Cova, “non hanno sostanzialmente avuto alcun beneficio dalle quote”. A partire dal prezzo, specie quello riconosciutogli dall’industria.

 
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