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Diritti / Opinioni

L’assistenza negata alle invisibili vittime di tortura

© Bernard Hermant

In Italia sono migliaia le persone rifugiate che hanno patito abusi. Le “Linee guida” ad hoc del 2017 sono rimaste lettera morta. La rubrica di Gianfranco Schiavone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

Tratto da Altreconomia 236 — Aprile 2021

L’esperienza di convivere con un significativo numero di vittime di tortura non era comune in Italia fino a una decina di anni fa. Il quadro è però nettamente cambiato con la crescita delle presenza dei rifugiati e di altri migranti forzati in fuga da persecuzioni e da conflitti armati. La letteratura scientifica internazionale evidenzia come il 25-30% dei migranti forzati sono stati vittima di torture o di violenza estrema accadduta nel loro Paese di origine e/o nei Paesi di transito (situazione sempre più frequente e che richiama le gravi responsabilità dell’Europa) e che più del 50% dei sopravvissuti sviluppano, a seguito dell’esperienza traumatica, un disturbo psicopatologico. Diversamente da quanti molti ancora credono, l’esperienza di tortura non è infatti una esperienza di violenza che semplicemente scolora con il passare del tempo poiché essa ha come obiettivo quello “di distruggere il credo e le convinzioni della vittima per privarla della struttura di identità che la definisce come persona” (Viñar, 1989).

Pur nella variabilità della resilienza individuale, essa è comunque un trauma che incide sempre in modo permanente sulla vita della vittima e richiede interventi di aiuto specifici e tempestivi. L’Unhcr stima il numero complessivo dei richiedenti asilo e di coloro che hanno ottenuto una protezione internazionale o umanitaria presenti in Italia a fine 2019 in 254mila persone. Le vittime di tortura presenti in Italia sono pertanto stimabili in decine di migliaia. La Convenzione Onu contro la tortura prevede all’art. 14 il diritto a una riparazione e a un risarcimento equo per le vittime mentre il diritto europeo in materia di asilo prevede misure di presa in carico e di accoglienza specifiche per le vittime di tortura, nonché garanzie procedurali per l’esame delle domande. L’attuazione di tali disposizioni è però interamente disattesa perché non c’è ancora in Italia alcuna consapevolezza della presenza di molte migliaia di vittime di tortura.

2001: sono trascorsi più di vent’anni da quanto Italo Siena apriva a Milano il centro “Naga-Har”

Il decreto legislativo 18/2014 (art. 27 comma 1 bis) aveva finalmente previsto l’adozione di “Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, compresi eventuali programmi di formazione e aggiornamento specifici rivolti al personale sanitario”. Con un decreto dell’aprile 2017 del ministero della Salute quelle Linee guida erano state alla fine emanate. Si tratta di un ottimo testo che prevede che ogni azienda sanitaria locale attui “un percorso terapeutico assistenziale che abbia carattere multidisciplinare, chiave di volta dell’assistenza e della riabilitazione delle vittime di tortura, che integri professionalità socio-sanitarie e giuridiche dei servizi territoriali pubblici, degli enti gestori e del privato sociale, ove presente”.

A quattro anni esatti dall’emanazione delle citate Linee guida però è come se il tempo si fosse fermato; i pochi servizi che già c’erano sono (malamente) sopravvissuti e poco o nulla di nuovo è nato. Era il 2001 quando a Milano lo scomparso dottor Italo Siena, psichiatra, apriva il centro “Naga-Har” per cercare di fare qualcosa, con risorse volontarie, per le vittime di tortura abbandonate a loro stesse nella metropoli meneghina. Sono passati più di vent’anni da allora durante i quali si è sviluppato un seppure gracile sistema di asilo, ma le invisibili vittime di tortura sono rimaste invisibili. Tutto ciò è crudele nei confronti delle vittime ma anche folle sotto il profilo della gestione della salute pubblica poiché l’assenza di interventi socio-sanitari specifici produce il costante aumento di situazioni cronicizzate di grave disagio psico-fisico che, prima o dopo, esplodono dentro i servizi pubblici e aumentano il livello di insicurezza nella società.

Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni nonché componente del direttivo dell’Asgi e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste

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