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Interni

L’assistenza casa per casa

Due medici dell’Ovest vicentino garantiscono cure domiciliari ai malati terminali. Un servizio più efficiente, risparmiando

Tratto da Altreconomia 145 — Gennaio 2013

I principi affermati dalla legge sulle cure palliative (38/2010) faticano a trovare traduzione concreta, ma l’esperienza del “Nucleo cure palliative” dell’Ulss 5 dell’Ovest vicentino s’impone come un modello. Riconosciuto e premiato dall’associazione Cittadinanzattiva nel novembre scorso. Il dottor Pietro Manno, palermitano trapiantato in uno dei più grandi bacini industriali d’Italia, tra Montecchio e le concerie di Arzignano, ne coordina le attività fin dalla nascita, nel giugno 2009.
Come nasce e come funziona il vostro “Nucleo”?
Applicando la legge, il criterio quello della dignità del malato. I primi sei mesi ho operato da solo, oggi sono affiancato dal collega Mirko Riolfi. Siamo reperibili 24 ore su 24. Veniamo contattati dai reparti degli ospedali che ci segnalano i pazienti in fase terminale. Da quel momento ci attiviamo, e attraverso un rapporto costante con il medico di famiglia seguiamo queste persone con intensità variabile a seconda della fase in cui versano.
A quale “bacino di utenza” vi riferite?
Il territorio dove operiamo è molto vasto, e ci vivono 280mila abitanti. È una delle zone più industrializzate d’Italia, tra chimica, tessile e metalmeccanica. Ci sono anche emigranti, cioè culture diverse con cui confrontarsi. Alcune aree si trovano anche a 1.300 metri d’altezza, e le raggiungiamo con una 4×4. Gli ospedali con cui lavoriamo sono quattro, tra cui Arzignano.
Mezzi a disposizione?
Due auto, due telefoni, un borsone, un tavolo, un computer e nessun ambulatorio.
Giornata tipo?
Di prima mattina facciamo il punto della situazione; alle 9 si parte e si torna alle 18. Trascorriamo buona parte del nostro tempo in automobile. Con questi mezzi e questi tempi assistiamo tra le 200 e le 300 persone ogni anno presso il loro domicilio.
È possibile tracciare un bilancio del vostro lavoro?
La nostra struttura costa al giorno, per paziente, tra i 20 e i 50 euro (considerando stipendi, benzina, manutenzione dell’automobile). Dunque se 10 giorni di ricovero dello stesso paziente terminale possono costare sino a 8mila euro, per garantire  allo stesso malato assistenza domiciliare spendiamo 400 euro. Stesso ragionamento vale per i farmaci: in un anno possiamo spendere 1.500 euro circa di farmaci. Dal momento che non diciamo ‘no’ a niente, capita di sforare, mantenendo comunque un totale modesto.
E quanto pesa l’assistenza domiciliare?
Qui muoiono circa 400 persone di tumore all’anno, e nella nostra Ulss (dati 2011) ne abbiamo rintracciati e assistiti la metà. Coloro che abbiamo seguito hanno avuto un ricovero ospedaliero medio di 3-4 giorni negli ultimi tre mesi, gli altri di 20-25 giorni in reparti per acuti: abbiamo fatto un conto -arrotondando per difetto-, secondo cui abbiamo risparmiato oltre 500mila euro. Basterebbe poco: qualche medico in più sul territorio, uno staff infermieristico preparato come il nostro, evitando antibiotici super costosi. Non è solo una questione di risparmio: più si intensificano le cure inutili e improprie e peggio stanno i pazienti.
Quali sono i vostri obiettivi nel breve e lungo periodo?
Da queste parti la mortalità a domicilio è stimata al 50% dei decessi. Il restante 20% muore in strutture quali gli ospedali di comunità, il 25-30% muore in reparto per acuti. Il nostro obiettivo è quello di ridurre quest’ultima percentuale a favore del domicilio.
Un punto dolente del Paese è l’impiego dei farmaci oppioidi.
Noi abbiamo registrato un aumento di spesa per oppioidi pari al 200-300%: sono farmaci sicuri e assolutamente contenuti nel costo. Una confezione può costare 30 o al massimo 40 euro al mese. Se pensiamo invece a cicli chemioterapici di ultima generazione, magari effettuati nell’ultima settimana di vita del paziente, possiamo toccare cifre vicine ai 2.500 euro.
Perché le cure palliative faticano così tanto a svilupparsi? Poche risorse, scarso interesse, esiguo margine di profitto?
Se gli ospedali si impegnassero a chiudere rami secchi, spostando gente volenterosa sul territorio, rinunciando magari a qualche posto letto, scontentando qualche ambizione di primariato, penso che le cose non potrebbero che migliorare. Qui l’abbiamo dimostrato, facendo una piccola rivoluzione. Senza inventarci nulla, ma applicando norme che già esistono. —

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