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L’appartamento romano

Dal 2003 un gruppo di utenti del Dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma A vive in cohousing: successo d’integrazione, risparmio per il ministero —

Tratto da Altreconomia 153 — Ottobre 2013

“Mi sembra un sogno questa vita che faccio oggi con Luigi”, dice Andrea, 40 anni e una diagnosi di schizofrenia.
Occhi chiari, pacati, racconta il suo passato fatto di viaggi in treno, fughe dalla casa dei genitori, notti di paura nelle stazioni di città sconosciute per sfuggire a voci che gli rimbombano nella mente da quando aveva vent’anni.
E cartoni di vino bevuti in solitudine, fermi della polizia per schiamazzi, ricoveri in reparti psichiatrici che assomigliano a gironi infernali. Oggi fa corsi di cucina e piccoli lavoretti da giardiniere, si prende cura della casa e spesso, nei fine settimana, va in montagna. Luigi, il suo coinquilino, ha una collezione di oltre mille cd e ha cominciato a leggere libri per superare la timidezza. Nell’appartamento che condividono da quattro anni hanno raggiunto un loro equilibrio. Come Luisa e Fabio, che sono diventati una coppia e -dopo oltre sette anni di convivenza- dimostrano di resistere a ogni crisi, a dispetto delle loro patologie psichiche. In tutto sono 27 gli utenti del Dipartimento di salute mentale (Dsm) della Asl Roma A che dal 2003 a oggi, terminato il percorso in comunità terapeutica, hanno cominciato un progetto abitativo autonomo in appartamenti regolarmente presi in affitto, con il supporto dell’associazione Solaris (www.lechiavidicasa.it, fondata da parenti di pazienti), il sostegno economico della Asl per vitto e alloggio e quello del Secondo Municipio per garantire la presenza di assistenti domiciliari alcune ore alla settimana.
“Le chiavi di casa” è il nome del progetto che ha rotto il ciclo vizioso di ricoveri coatti in ospedale, permanenze in comunità psichiatriche, cliniche, case famiglia e temporanei ritorni dai genitori, che per Andrea, Luigi, Luisa e Fabio era diventato routine. Una condizione esistenziale di instabilità abitativa che -a 35 anni dalla legge 180 che ha sancito la chiusura dei manicomi- condanna ancora chi soffre di disturbo mentale in Italia, nel limbo della malattia e della segregazione.
“Abbiamo voluto forzare un po’ i vincoli del nostro ruolo, anche prendendoci dei rischi e chiedendo ai pazienti di investire risorse proprie, ma i risultati sono stati sorprendenti” esclama Antonio Maone, psichiatra responsabile della Comunità terapeutica “Sabrata” di Roma, da cui provengono quasi tutti i pazienti inseriti nel progetto. Soltanto uno di loro ha avuto un ricovero ospedaliero in Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura) dopo l’inizio del progetto e ha dovuto abbandonare il percorso di autonomia. “Misurando il miglioramento in termini di stabilità residenziale, possiamo dire che il successo è stato del 98% -afferma Maone-: il fatto di poter contare su una propria abitazione ha avuto anche un ruolo terapeutico”.
“Entrare e uscire dagli Spdc è un incubo. Chi non c’è stato non può capire -racconta, animandosi, Gabriella, una vita normale da impiegata fino a 40 anni, tenendosi dentro le voci e le visioni che aveva, poi esplosa in patologia schizofrenica, vita in strada, solitudine-. Sono anni che non ci metto più piede, per fortuna”. Vive con Donata in un appartamento vicino a quello degli altri ragazzi del gruppo che si è formato in comunità: “Abbiamo la nostra intimità, ma quando ci sentiamo soli ci facciamo visita”.
 Il sistema del “gruppo appartamento” o cohousing risulta non solo clinicamente appropriato ma anche economicamente efficiente. Se applicato a livello nazionale potrebbe contribuire a curare anche le sofferenti casse dello Stato: “Il risparmio è enorme quando si separano i bisogni abitativi dalle necessità assistenziali”, spiega Maone che ha realizzato una stima mettendo a confronto il costo di un distretto sanitario che ha realizzato progetti di cohousing per i propri pazienti, e quelle di un distretto che non lo ha fatto. “La spesa pubblica media di un paziente psichiatrico in regime di cohousing risulta di circa 350 euro al mese, mentre quella necessaria per un paziente ospite di strutture residenziali psichiatriche si aggira intorno ai 3mila euro (da 1.500 a 6mila a seconda dei casi)” afferma Maone.
Innanzitutto il paziente psichiatrico che ha risorse economiche proprie contribuisce al costo dell’abitazione, senza ricadere, per la residenza, a carico del Servizio sanitario nazionale. Ma anche per coloro che per pagare affitto e vitto devono essere sostenuti dalla Asl, la soluzione del “gruppo appartamento” permette di abolire le spese dell’assistenza 24 ore su 24 da parte di operatori socio-sanitari (che è obbligatoria nelle altre forme di residenzialità) a favore di un’assistenza più leggera. Si abbattono i costi fissi di lavanderia e del personale per la cucina e le pulizie e i pazienti hanno maggiori possibilità di venire integrati in attività lavorative nel proprio territorio.
 
A Ciampino, due gruppi-appartamento sono stati avviati il 1 maggio scorso, per ovviare all’insostenibilità finanziaria della casa famiglia locale. Su sollecitazione del direttore dell’Unità operativa di Salute mentale, Marco D’Alema, il Comune ha sostituito la casa famiglia con un progetto di gruppi-appartamento: “Il costo annuale della residenzialità è passato da 130mila a 50mila euro e, in più, abbiamo aumentato il numero degli utenti, da 4 a 6”, spiega il funzionario Raimondo Lucarelli. Anche in questo caso l’avvio del cohousing è stato possibile grazie all’incontro tra un medico determinato a creare un progetto ad hoc per il benessere dei pazienti e un’associazione di familiari (“La Rosa Bianca”) che si rende disponibile a fare da garanzia per l’affitto e ad occuparsi del pagamento delle bollette. Daniele, Luca e Paolo, inquilini di uno degli appartamenti aperti a maggio mi attendono per il caffè con una tavola ordinatamente apparecchiata, tazzine colorate e qualche dolce. L’appartamento è luminoso e pulito, e sulla porta è attaccato un foglio con la tabella dei turni per i lavori di casa. “In casa famiglia avevo il barbone lungo, non mi lavavo quasi e mi svegliavo ogni giorno alle 12. Ero sempre davanti alla Tv -racconta Danilo-. Oggi non posso più perché c’è l’organizzazione della casa cui badare e con la borsa lavoro da giardiniere della Comunità di Capodarco pago parte dell’affitto -spiega-. Quando non è necessaria, l’assistenza 24 ore su 24 può essere un danno, oltre che uno spreco di risorse, perché disabitua il paziente a pensare che può risolvere un problema con capacità proprie”, afferma il dottor D’Alema, che è presidente dell’Airsam (Associazione italiana residenze per la salute mentale). Eppure a livello nazionale sono le strutture residenziali 24 ora su 24 ad assorbire la maggior parte delle risorse: quasi 56mila posti letto in strutture residenziali socio-assistenziali e socio-sanitarie sono occupati da adulti con disabilità e patologie psichiatriche scrive l’Istat nel  rapporto 2010. Si tratta di strutture prevalentemente private (il 70%). Mentre per quanto riguarda i ricoveri ospedalieri in Spdc (costo che va dai 200 ai 600 euro al giorno per ricoveri che durano in media 2 settimane) i dati Istat indicano che le dimissioni di pazienti affetti da disturbi psichici sono state 290.964 nel 2008.
“Così restano pochi soldi per le attività sul territorio, come i gruppi-appartamento, che dovrebbero essere alla base della psichiatria italiana di comunità, figlia della legge 180” afferma Renzo De Stefani, primario del Servizio di salute mentale di Trento. Il 70% del budget per la salute mentale va invece a strutture residenziali in cui i pazienti assumono farmaci senza controllo, tendono ad ingrassare e a passare la giornata distesi a letto”, incalza Peppe Dell’Acqua, già direttore del Dsm di Trieste, secondo cui l’alternativa è un “budget di salute”, modello già utilizzato in Friuli-Venezia Giulia: con questo modello, i 3-5mila euro mensili a persona, generalmente usati per le rette della clinica o comunità, “vengono spesi in attività per il reinserimento sociale e per l’alloggio in appartamenti di massimo 6 persone”.

A Roma però la situazione è diversa: “Il possibile futuro taglio dei sussidi della Asl può significare la fine del progetto per Andrea e Luigi -spiega con preoccupazione Lotario Turini, presidente dell’associazione Solaris-: il rischio è che per mancanza di 200 euro al mese, i pazienti di via Sabrata che non hanno soldi propri per l’affitto vengano rispediti nel circuito di Spdc, clinica-comunità-casa famiglia, che costa sui 5mila euro al mese, oltre ad annullare il lavoro di anni”.
Un paradosso per una Regione come il Lazio, commissariata da anni e con un debito sanitario molto elevato (636,3 milioni nel 2012): “Circa l’80% delle persone che hanno fatto un percorso in comunità psichiatrica arrivano a una condizione in cui non hanno più bisogno di soluzioni istituzionali come le strutture residenziali e l’assistenza 24 ore su 24, eppure generalmente continuano a vivere con questo livello di assistenza per il fatto che non esistono concrete alternative”, afferma Maone. Il problema risulta in parte organizzativo -per un ricovero basta la ricetta del medico, per un cohousing bisogna chiedere permessi e attivare un progetto- e in parte economico. I gruppi-appartamento nel Lazio vengono finanziati grazie ai “sussidi terapeutici per disagiati psichici” previsti dalla legge regionale 49/83 istitutiva dei Centri di salute mentale (Csm), con cui però devono essere finanziate anche tutte le altre attività di supporto all’autonomia delle persone con malattia mentale, mentre le cliniche e le comunità psichiatriche godono di risorse certe, grazie a convenzioni con la Regione.
La disparità nello stanziamento delle risorse è enorme: per i sussidi terapeutici per disagiati psichici -con cui vengono finanziati anche borse lavoro, attività di socializzazione, vacanze- la Regione ha versato nel 2012 alle 12 Asl del Lazio circa 6 milioni di euro. Lo stesso anno ha destinato alle strutture residenziali del territorio regionale oltre 83 milioni di euro: si tratta di 1.350 posti letto, di cui 800 in case di cura e 550 in comunità.
 
“La sfida della tutela della salute mentale passa per i meccanismi di finanziamento, che dovrebbero evolvere attorno a percorsi integrati socio-sanitari su cui misurare i risultati sociali, sanitari ed economici -afferma Antonio Lapenta, consulente di economia e management in sanità-. Si tratta di promuovere sperimentazioni all’interno del Servizio sanitario nazionale e del complesso dei meccanismi di protezione sociale, misurarne e confrontarne i risultati a livello nazionale e stabilire criteri d’incentivazione”. In questo modo “facendo evolvere la figura del degente istituzionalizzato a quella di paziente curato fino a quella di cittadino tutelato”. In gioco c’è il compimento del diritto costituzionale alla salute: “La libertà è terapeutica anche quella di sperimentare forme nuove per garantire l’esercizio dei diritti” diceva Franco Basaglia. Va in questo senso la proposta di legge di iniziativa popolare “181” promossa dal movimento “Le parole ritrovate” di Trento (www.leparoleritrovate.com), attualmente alla fase di raccolta firme, che propone l’inserimento dei temi “Abitare, lavoro e socialità” tra gli impegni dei servizi e stabilisce che “la parte variabile del salario degli operatori”, debba essere determinata dal “tasso di fiducia e di speranza di utenti e familiari”. Da misurare, “secondo modalità decise dalle consulte di salute mentale”, “almeno una volta all’anno”. —

Da Trieste a Matera
Sono nate grazie all’impegno di singoli medici e amministratori locali, perciò non esiste un elenco di tutte le realtà di cohousing in ambito psichiatrico oggi attive in Italia. Elenchiamo alcune tra le più significative. L’esperienza più antica è a Trieste, prima città  a chiudere un manicomio, quello di cui era direttore Franco Basaglia: Qui il cohousing è cominciato nel ‘75 e oggi la “regola” della residenza psichiatrica sono appartamenti di meno di 6 persone. Nel distretto di Torino1 c’è l’esperienza più vasta: 60 gruppi appartamento con diversi livelli di assistenza, e 150 persone che in seguito sono andate a vivere da sole. A Trento ci sono le sperimentazioni più innovative -come la pratica di intestare l’affitto ai pazienti stessi per favorirne la responsabilità, ma anche l’idea di promuovere la convivenza dei pazienti psichiatrici con rifugiati e richiedenti asilo politico, per andare incontro a diverse necessità-. Nel centro-Italia c’è l’esperienza rivoluzionaria della Rete toscana utenti salute mentale, i cui membri hanno costituito una cooperativa che gestisce gruppi appartamento -a Massa-Carrara e a Pisa– e crea lavoro.
Il cohousing è poi sperimentato a Roma, Ciampino (Roma), Bologna, Termoli (Is) e Bergamo. In Basilicata nel ‘78 ci fu la prima esperienza nel centro-Sud Italia di una struttura residenziale alternativa al manicomio: Oggi sono 3 i gruppi appartamento in provincia di Matera nati 10 anni fa su iniziativa della cooperativa “Progetto Popolare”. In Sicilia, a Caltagirone (Ct) sono nati 4 gruppi appartamento grazie a un progetto lavorativo di produzione agricola finanziato dall’Unione europea 10 anni fa, ma che prosegue ancora oggi.

Al link www.altreconomia.it/cohousing un approfondimento sull’esperienza della “Rete Toscana utenti di salute mentale”

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