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l’antimafia siamo tutti

Le istituzioni dovrebbero accompagnare le azioni delle realtà associative che contrastano il racket . Parla il magistrato Franca Imbergamo

Tratto da Altreconomia 125 — Marzo 2011

"Davanti al supermercato di chi denuncia il racket non possono esserci solo i ragazzi di Addio Pizzo, dev’esserci anche una macchina dei Carabinieri”. Franca Imbergamo è sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Caltanisetta, e da pochi mesi consulente esterna della Commissione parlamentare antimafia. Conosce bene la Sicilia, la sua terra, e i siciliani. Ama il suo lavoro. Quando chi lavora nell’antimafia con trasparenza e onestà le chiede una mano, non si sottrae. Scende in piazza, va nelle scuole, nelle università. Vive da anni blindata, sotto scorta Un pregio tra i tanti: è realista e oggettiva. Ciò che serve in Sicilia. 

Di fronte ai successi ottenuti dall’antimafia sociale, delle associazioni antiracket, pensa che siamo di fronte a una vera rivoluzione sociale o questa nuova frontiera resta un fenomeno d’élite? 
“Dal punto di vista dell’operatore economico, questi movimenti possono essere un validissimo aiuto solo se vengono accompagnati da una seria presa di posizione delle istituzioni. Faccio un esempio recente: a Palermo, in via Pindemonte, una molotov ha distrutto un supermercato il cui titolare aveva denunciato, e fatto arrestare, il suo estorsore. Davanti a quel negozio non ci doveva essere soltanto il gruppo di ragazzi di Addiopizzo, che fanno un’opera meritoria, ma anche una macchina delle forze dell’ordine. Solo in questo caso nessun mafioso si sarebbe più avvicinato a quel posto. La gente che lavora fa un ragionamento normale, di paura, di convenienza. E siccome non siamo ancora arrivati al cento per cento delle denunce, è chiaro che quando qualcuno ha il coraggio di esporsi dobbiamo trovare le risorse per permettere loro di stare tranquilli”.
 
A questo processo possono partecipare anche le amministrazioni, svolgendo un ruolo da protagonisti, sensibilizzando l’opinione pubblica a sostenere i movimenti antimafia. 
“Un bel segnale da parte degli enti locali sarebbe quello di stipulare contratti per le forniture solo con coloro che aderiscono a certi protocolli di legalità. Vuoi fare una fornitura per la mensa della scuola? Allora aderisci al protocollo della legalità, dichiarando che non hai mai pagato il pizzo e impegnandoti a denunciare il racket. Servono anche controlli per evitare che la solita abitudine a bluffare prenda il sopravvento. Bisogna essere attenti. In questo momento, per esempio,  abbiamo motivo di ritenere che Stidda e Cosa Nostra abbiano riallacciato i loro rapporti, almeno nell’ambito gelese, al fine di spartirsi il pizzo”. 
 
In che misura l’economia legale rischia di essere influenzata da quella illegale? 
“La svolta di Confindustria siciliana è un segnale importante: l’atteggiamento è cambiato. Molti imprenditori si sono resi conto che la mafia è una palla al piede che impedisce di competere a livello europeo e un serio sviluppo dell’economia. È il frutto di un’analisi seria dei costi e dei benefici, unita a una grande spinta di etica pubblica. Ma si tratta di una svolta assai sofferta: non è corale, non tutti sono convinti, e molti soggetti che si ammantano di una veste di rinnovamento nei fatti tradiscono. 
L’economia siciliana è malata a tutti i livelli: ha avuto grandi finanziamenti dall’esterno, i fondi europei sono all’ordine del giorno, oggi c’è la ‘monnizza oro’ di cui parlano alcuni mafiosi. Ci sono grandi interessi.  Quanto sia possibile sottrarli all’influenza della criminalità non lo possiamo sapere: sarebbe necessario uno sforzo investigativo maggiore, soprattutto con le indagini di natura patrimoniale. La mafia è certamente in difficoltà: da un lato si stanno affermando nuovi capi, dall’altro esiste un fortissimo substrato di natura economica, sul quale ancora appoggia, che deriva dalla gestione del denaro pubblico e quindi dal consenso. Ricordo uno slogan che non è mai passato di moda in Procura: ‘Chi tocca gli appalti muore’, dicevamo. 
 
La gestione degli appalti è sempre stata il nodo cruciale della mafia in Sicilia. La mafia non vive di solo pizzo, ma grazie all’attaccamento parassitario alle risorse dello Stato. Sono venuti meno molti controlli di natura burocratica, e ciò comporta che l’unico controllo possibile sia quello affidato alla magistratura. 
 
Il ruolo della magistratura sull’economia è tuttavia complicato: o arrivi troppo tardi, quando il fatto è già consumato, quando le risorse sono dilapidate e le opere realizzate con criteri che non corrispondono ai prezzi di mercato, oppure agisci in maniera preventiva. Quando ti muovi così, però, devi stare attento a non farlo come un elefante tra i cristalli, perché l’iniziativa autoritaria della magistratura si inserisce nel mercato con difficoltà: c’è il problema della conservazione dei posti di lavoro. A Caltanisetta, in Corte d’Appello, abbiamo in gestione una grande misura di prevenzione patrimoniale a carico dell’imprenditore Pietro Di Vincenzo, personaggio di primo piano nell’economia siciliana. Già presidente dell’Ance e numero uno di Confindustria nissena per anni, ma soprattutto personaggio già indicato da Angelo Siino nei sui verbali come uno dei referenti del cosiddetto ‘tavolino’: sostanzialmente il punto di riferimento degli accordi spartitori in temi di appalti negli anni 90 sul territorio di Caltanisetta. Abbiamo sequestrato gran parte del suo patrimonio imprenditoriale, e viviamo la difficoltà per la società in amministrazione giudiziaria di stare sul mercato e portare a buon fine le iniziative imprenditoriali della società. Non esiste un sistema d’investigazione patrimoniale che si muova diversamente rispetto alle indagini penali”.
 
Con quali carenze legislative voi magistrati dovete fare i conti? 
“Si parla di un Testo unico antimafia, che sarebbe in fase di elaborazione. La legislazione antimafia dev’essere continuamente adeguata, razionalizzata e soprattutto serve stabilire nuove normative in merito alle indagini antimafia, per renderle più snelle e adeguate ai tempi. Parlo per esempio del tema dell’autoriciclaggio, cioè la possibilità di colpire il soggetto già condannato per associazione mafiosa quando reinveste il denaro. Oggi non è possibile, ed è una contraddizione insostenibile che permette l’impunità. Il problema della legislazione è riuscire a individuare i flussi di denaro sporco prima che questi, gettandosi nel mare dell’economia legale, lo inquinino diventando irriconoscibili. Spesso ci troviamo davanti a imprese che operano rispettando la legge, ma i nodi stanno a monte: come hanno ottenuto quegli appalti? Quale denaro stanno investendo? Le imprese mafiose sono tra i migliori contribuenti dello Stato, perché pagando le tasse dimostrano di aver rispettato le regole e a loro modo cercano di costituire una giustificazione del denaro che investono. Se non riusciamo a capire da dove viene quel denaro ci troviamo dinanzi ad un muro di regole rispettate, ma il cancro sta a monte”. 
Resta la paura di denunciare. Se centinaia di commercianti dicono “no” al pizzo, ci sono intere città dove non vi è una sola denuncia.  “In una recente conferenza stampa il Questore di Caltanissetta spiegava che nell’ultima operazione antiestorsione non aveva ricevuto la denuncia di un solo operatore economico. Le indagini erano basate solo su dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e intercettazioni telefoniche. La paura di fronteggiare la mafia è naturale. Il problema è la credibilità delle istituzioni. Vivere sotto il giogo del pizzo non conviene a nessuno. Per le imprese, in una fase di crisi, il costo dell’estorsione è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso, e le porta alla liquidazione. Non solo. La fase di crisi permette a molti mafiosi di entrare nelle società come azionisti, fornendo capitali. Il mafioso arriva come un beneffatore, ti porta denaro fresco e entra nella società. Ecco che l’impresa in sé non è mafiosa, ma a partecipazione mafiosa. Nell’economia legale è entrata l’economia illegale.”. 
 
 
"la spesa a pizzo zero" secondo ae
La legalità è nella borsa della spesa. Per contrastare la mafia ogni giorno, con gesti quotidiani, i cittadini hanno nelle proprie mani uno strumento inedito: il consumo critico. La spesa a pizzo zero racconta -con il valore aggiunto della riflessione storica e sociale- l’esperienza di chi sfida le cosche scegliendo ogni giorno di privilegiare l’economia solidale. Storie di legalità come quella dei ragazzi del comitato Addiopizzo, che a Palermo per primi hanno dichiarato che “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”, quelle dei commercianti e dei produttori -dalle arance agli arancini, dal tursimo al cemento- che hanno scelto di essere pizzo free, ma anche attenti al rispetto dell’ambiente e dei lavoratori. La nascita delle cooperative di Libera Terra, che hanno regalato a tanti siciliani posti di lavoro puliti e rappresentano l’avamposto dello sviluppo di una “nuova agricoltura”, è legata alla confisca dei beni della mafia, al biologico, all’esplosione dei gruppi d’acquisto solidali. Le storie di persone, negozianti, agricoltori, insegnanti, trasportatori, che hanno travagghiato e rischiato per questi obiettivi. Non mancano le voci eccellenti. Don Luigi Ciotti, fondatore di “Libera”, fa il punto sul tema dei beni e delle aziende confiscate alla mafia. Umberto Santino, storico della lotta alla mafia, tende un filo tra la critica al sistema capitalista e la nascita di una nuova economia che si contrappone alle cosche.
La spesa a pizzo zero. Consumo critico e agricoltura libera, le nuove frontiere della lotta alla mafia è un libro di Francesca Forno, sociologa dell’Università di Bergamo. In allegato c’è il dvd Storie di resistenza quotidiana, di Paolo Maselli e Daniela Gambino (libro di 128 pagine + dvd, 16 euro).

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