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L’alba di Rose e Boniface – Ae 81

Cash work, lavoratori precari. Ma nel Kenya delle liberalizzazioni c’è un altro elemento che lega le vicende di Rose e Boniface: un progetto di microcredito che coinvolge migliaia di persone per piccoli impianti di irrigazione e l’acquisto di attrezzature agricole….

Tratto da Altreconomia 81 — Marzo 2007

Cash work, lavoratori precari. Ma nel Kenya delle liberalizzazioni c’è un altro elemento che lega le vicende di Rose e Boniface: un progetto di microcredito che coinvolge migliaia di persone per piccoli impianti di irrigazione e l’acquisto di attrezzature agricole.
Il Forum sociale mondiale di Nairobi è stato ricco di storie di gente comune; ma anche di sorprese: come la cancellazione del debito verso l’Italia, e l’opposizione verso gli Epa




Il Forum sociale mondiale che in gennaio ha radunato a Nairobi 55 mila persone è pieno di gente come Rose

e Boniface. Quando Rose apre gli occhi manca ancora un’ora perché il sole cominci a illuminare le pendici del Monte Kenya. Ogni sua giornata inizia così, in una fredda e rumorosa oscurità ai margini della foresta equatoriale, sperando che nessun animale selvatico, tanto meno un elefante, abbia avuto la brillante idea di farsi uno spuntino sui suoi campi coltivati, pochi ettari che devono garantire il cibo, qualcosa da vendere e, forse, anche un minimo di raccolto destinato all’esportazione.

Rose ha superato i 40, e gli anni di lavoro sul suo volto si vedono tutti. Si è sposata nel 1989, e si è ritrovata in un matrimonio con alti e bassi dal quale ha avuto tre figli. E un marito disoccupato. O, se vogliamo, precario permanente, che nel Kenya delle ricette neoliberiste vuol dire senza diritti. In parole povere ma in fatti concreti, significa percorrere ogni giorno alcune decine di chilometri a piedi alla ricerca di un lavoro, un qualsiasi lavoro, senza tutele e da pochi soldi. Cash work, si chiama. Che tradotto in italiano vuol dire lavorare dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio per una paga che varia dai 70 ai 120 scellini keniani, in ogni caso meno di due dollari al giorno.

Questo misero guadagno, unito alla vendita dei fagiolini e del latte delle sue due mucche, consente a malapena alla famiglia di Rose di recuperare il necessario per vivere.

Boniface invece ha 39 anni, e non è sposato.

È riuscito grazie al lavoro duro dei suoi genitori ad andare alla scuola secondaria, ma al momento del passaggio all’università la scelta è stata tra lui ed il fratello più piccolo, che doveva entrare al secondo ciclo scolastico.

Hanno optato per il fratello, e a Boniface non è rimasto che andare a lavorare. Anche per lui, come per il marito di Rose, si è aperto il mondo del caporalato. Nel Kenya produttore di caffè la filiera di trasformazione, dalla raccolta alla torrefazione, coinvolge moltissime persone. Boniface ha lavorato in una ditta locale di trasformazione del caffè verde, a lui spettava il lavoro di pulitura ed essiccazione dei chicchi, per una paga di circa 15 scellini al giorno (450 al mese). Poco più di sei dollari al mese.

C’è un elemento comune tra le storie di Rose a Boniface.

Un legame che va oltre al fatto di aver vissuto una vita dura e precaria e di averlo fatto nel distretto di Nyeri, a poche centinaia di chilometri a Nord di Nairobi. Entrambi fanno parte di un gruppo di autoaiuto contadino, e Boniface ne è il presidente.

Grazie all’impegno della Caritas locale con la collaborazione dell’ong italiana Terra Nuova, queste due persone, le loro famiglie e i componenti delle loro comunità hanno costituito un coordinamento per un progetto di microcredito che vede il coinvolgimento di alcune banche commerciali locali (tra cui l’Equity Bank). Avere accesso al credito significa emancipazione dall’indebitamento, spesso contratto con gli stessi intermediari che comprano a prezzo irrisorio i manufatti finali.

Il progetto prevede la costituzione di fondi di credito rotativo che possono essere utilizzati in particolare per la costruzione di piccoli impianti di irrigazione. 500 le persone a oggi coinvolte, comprese le 80 che compongono il gruppo di Boniface. Tutto il progetto ne riunisce 1.800 (per il credito per la piccola irrigazione) e oltre 1.300 (per l’acquisto di attrezzature agricole).

Più acqua, più input, più formazione, che in cifre grezze significa passare dai due/tre quintali di carote prodotte nel 2002 agli oltre 8 del 2006.

Ma la scelta di collaborare non risponde solo a esigenze produttive: negli ultimi dieci anni nel Kenya delle liberalizzazioni e dell’apertura dei mercati sono cambiate molte cose. Soprattutto dopo che le direttive dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) hanno imposto di abbassare le tariffe sui prodotti agricoli. Così, per esempio, il Kenya che era autosufficiente nella produzione di latte (era arrivato a toccare i 360 milioni di litri all’anno nel 1992), ha visto precipitare il livello di produzione a 279 milioni di litri nel 2004, in particolare dopo l’invasione di latte in polvere a basso costo proveniente dall’Unione europea e dal Sudafrica. Migliaia di produttori sul lastrico e una produzione in declino. Soltanto un lavoro di lobby politica da parte dei contadini e la decisione del governo di aumentare le tariffe del settore (dal 35% al 60%) sta lentamente invertendo la tendenza.

Lo spettro della liberalizzazione e dell’apertura indiscriminata dei mercati si sta affacciando anche in questo scorcio di 2007, con il tentativo da parte dell’Unione europea di far passare gli Accordi di partenariato economico (Epa) con i Paesi ex colonie di Africa, Caraibi e Pacifico. Si parla di piena reciprocità nelle liberalizzazioni, come se ci si riferisse al massimo della democrazia e dell’equità.

Ma si può ritenere equo un trattamento che mette sullo stesso piano le imprese dell’agrobusiness e il gruppo di autoaiuto di Nyeri? Entrambi vorrebbero accesso al mercato, ma Rose e Boniface lo chiedono graduale, armonico e soprattutto tale da non mettere in discussione la produzione per la sussistenza delle proprie famiglie. Roppa, Propac e le altre reti contadine africane hanno chiesto durante i lavori del Forum sociale mondiale di Nairobi una moratoria di 20 anni sugli Accordi di partenariato economico. Una posizione fatta propria anche dai ministri del Commercio dell’Unione africana, nella dichiarazione finale del Congresso di Addis Abeba dello scorso 15-16 gennaio. Cercare tutte le alternative, compreso uno slittamento dell’entrata in vigore degli accordi, prevista per la fine del 2007, questo l’obiettivo.

“L’Africa può nutrire se stessa”, recita lo slogan di una campagna di sensibilizzazione della rete contadina Roppa. Potrebbe essere venuto il momento di farcene una ragione.



I numeri del forum

Sono stati oltre 55 mila i partecipanti alla settima edizione del Forum sociale mondiale che si è tenuto in gennaio a Nairobi, capitale del Kenya. Una partecipazione più alta delle aspettative: dopo tutto Nairobi non è Porto Alegre né Mumbai (le altre due città, in Brasile e in India, nei quali si sono svolte le edizioni precedenti) e i problemi infrastrutturali non mancavano. Il Forum ha permesso l’organizzazione di oltre 1.200 eventi, tra seminari e workshop, e di 21 assemblee. E gli italiani? Formavano una delegazione composita di oltre 500 persone. C’era anche una viceministra, Patrizia Sentinelli, che oltre a incontrare i movimenti contadini in preparazione dei convegni internazionali sulla sovranità alimentare, ha firmato per l’Italia l’accordo di cancellazione dei 44 milioni di euro di debito estero del Kenya verso il nostro Paese. 4,4 milioni all’anno, per 10 anni, da reinvestire nel recupero delle baraccopoli e in uno sviluppo diverso. Anche questo è stato il Forum.



Maratona tra gli slum

Un mare di lamiere e un orizzonte di discariche. Non è l’immagine virtuale di un film di fantascienza, è la realtà quotidiana di chi vive a Korogocho. Dai gironi infernali delle baraccopoli africane si scappa, e di corsa, nella speranza di trovare una vita non solo decente, prima di tutto umana. Anche il 25 gennaio migliaia di persone si sono messe a correre, ma non per fuggire dai volti e dagli occhi dei miseri, ma al contrario per permettere a tutti di guardarla in faccia, la miseria, e direttamente negli occhi. Delegati del Forum mondiale, semplici cittadini, militanti e cooperanti hanno scelto di indossare una maglietta che chiedeva “diritti di base “ per tutti e di correre per 14 chilometri da Korogocho verso Uhuru Park, nel centro città. Passando per Kariobangi, Huruma, Mathare, per citare alcuni degli oltre 200 slum di Nairobi. Una maratona che ha chiesto dignità ed umanità, ormai dimenticate nel millennio dello sviluppo tecnologico. Alla maratona c’era Paul Tergat, leggenda vivente dell’atletica keniana: il 28 settembre 2003 vinse la maratona di Berlino, battendo il record del mondo con 2h 4’55”, tuttora imbattuto.



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