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Esteri

L’aiuto sotto inchiesta

La solidarietà è ormai la quinta industria per fatturato a livello globale. Linda Polman e Duncan Green discutono dei limiti dell’azione delle ong Linda Polman, inviata speciale per decenni nelle crisi umanitarie per tv e giornali europei ama il paradosso….

Tratto da Altreconomia 111 — Dicembre 2009

La solidarietà è ormai la quinta industria per fatturato a livello globale. Linda Polman e Duncan Green discutono dei limiti dell’azione delle ong

Linda Polman, inviata speciale per decenni nelle crisi umanitarie per tv e giornali europei ama il paradosso. “Sei nel 1944 e affronti un dilemma capitale: chiedere o meno ai generali nazisti di poter installare un campo di assistenza di fronte ad Auschwitz per alleviare le ferite dei deportati. Se lo fai -mi chiede-, ti rendi complice?”. Cominciano così il suo libro L’industria delle solidarietà (Bruno Mondadori, 2009) e la nostra intervista.
Ogni intervento umanitario è un patto col diavolo?
Credo che l’“industria della solidarietà” sia costretta ogni giorno a fare patti col diavolo, così è diventata la quinta nel mondo come dimensioni ed importanza.
Ma è un’industria che cresce perché aumentano i disastri e i bisogni.
In realtà l’esplosione del settore non corrisponde alla crescita dei disastri umanitari. Ci sono 60 guerre nel mondo e non tutte hanno i riflettori accesi e i conseguenti aiuti. Ciò che documento nel mio libro è il profitto che le organizzazioni umanitarie traggono da queste tragedie.
In genere si pensa che la quantità di denaro dedicato all’aiuto sia in calo, ma non è cosi. Si parla di 130 miliardi di dollari all’anno, un sacco di soldi mossi insieme alla guerra al terrorismo, altra industria in forte crescita. In prima fila il governo Usa e l’Unione europea, che stanno usando il loro aiuto umanitario per attrarre l’opinione pubblica dei contesti in cui intervengono, come in Afghanistan. Per fare questo hanno bisogno delle organizzazioni umanitarie. Sta  crescendo anche  il ruolo del settore privato, le multinazionali, che molte volte decide come destinare i soldi per l’aiuto.
Perché le ong si tuffano a capofitto in ogni emergenza, anche laddove è molto difficile operare?
È importante mostrare la propria faccia, far vedere ai donatori quello che si fa. Se non sei in prima linea i donatori scelgono altre organizzazioni. Devi stare in mezzo ai disastri e fare in modo che i giornalisti lo sappiano. L’aiuto è come un prodotto: per essere venduto ha bisogno di pubblicità.
Per esistere hanno quindi bisogno dei mass media. Che ruolo svolgono giornali e televisioni?
Media e aiuto umanitario viaggiano insieme, sono industrie che si fanno comodo a vicenda. Se non vieni visto sulla Cnn, nessun donatore ti prenderà in considerazione. Il precedente segretario delle Nazioni Unite, Boutros Ghali, affermò che la Cnn era il sedicesimo membro del Consiglio di Sicurezza. Questo spiega l’importanza e l’influenza dei media nei disastri umanitari, e la relazione con le dinamiche di aiuto. Ma c’è anche un altro aspetto che riguarda l’entità del disastro stesso: più è grande maggiore sarà l’interesse dei media, e quindi dell’industria dell’aiuto. Il direttore del World Food Programme (il programma delle Nazioni Unite contro la fame, ndr) ha spiegato come il Paese che riceve meno aiuti sia quello in cui vi è una stabilità politica maggiore. Mentre i Paesi in guerra, dove vi sono più morti e disastri, concentrano l’attenzione internazionale. Se sei una vittima e vuoi che i mezzi di comunicazione ti prendano in considerazione devi essere certo che la tua situazione sia più interessante di altre. I rifugiati in Congo, o in Darfur, sono in concorrenza per l’attenzione internazionale. Anche loro vivono nell’era dei media.
Ma situazioni di grande emergenza, come quando i bambini sono vittime, non possono essere lasciate a sé stesse.
Durante il governo Bush ho incontrato in un contesto di guerra dei giovanissimi soldati americani che sono stati in grado di spiegarmi esattamente come funziona il sistema degli aiuti umanitari nelle situazioni di conflitto. Mi hanno chiesto se sapessi il significato della parola “guerra”. Ho risposto che per me significa conflitto. Loro mi hanno corretto, anagrammando la parola War: Waste all Resources, ovvero rompere qualsiasi cosa, eliminare qualsiasi risorsa per poi ricostruire. Questa è la ragione per cui colpiscono le fasce più deboli della popolazione, come i bambini, proprio perché il loro obiettivo è quello di attrarre l’attenzione internazionale. Sanno esattamente come funziona l’industria dell’aiuto e io penso che questo sia spaventoso. Chi sarà il prossimo?
Allora in molti casi si dovrebbe dire di no e abbandonare le vittime?
Spesso pensiamo che dire no non sia un’opzione perché è “crudele”. Ma ci dimentichiamo che lo facciamo già ogni giorno. Fra le 60 guerre nel mondo molte sono le vittime che non beneficiano di alcun aiuto. Chi si occupa di aiuti umanitari dovrebbe andare nei luoghi in cui si può salvare il maggior numero di vite. Scoprendo magari che non è il Darfur ma un posto “meno interessante”, mai visto alla Cnn. Quindi la domanda da porre loro è: dove andare? E la risposta: dove si possono salvare il maggior numero di persone, E il punto centrale è come distribuire l’aiuto umanitario e fare in modo che ci sia più responsabilità da parte delle ong.

* In difesa dell’aiuto
Le Ong si tuffano a capofitto nei disastri soprattutto per guadagnarci?
Duncan Green, capo-ricercatore di Oxfam International e autore del libro Dalla povertà al potere (Altreconomia), non è d’accordo. “Difficilmente -risponde Green- si può definire una crisi umanitaria solo come una ‘opportunità di lavoro’, e neanche si può parlare di raccolta fondi durante un’emergenza. Abbiamo bisogno di soldi per salvare vite umane e ciò implica anche i limiti di cui tanto si parla. Le ong hanno necessità innanzitutto di perseguire la propria missione, che sia direttamente salvando vite o cambiando le politiche pubbliche per migliorare le condizioni di vita dei più poveri. Se l’ auto-promozione aiuta al raggiungimento di questo risultato allora si può giustificare, ma mai compromettendo il lavoro delle ong locali. Le persone devono essere viste come agenti del proprio destino, non solo vittime delle circostanze.
Che tipo di aiuto e utile è quale invece controproducente?
Sono utili i progetti che supportano le attività di rafforzamento delle capacità delle persone e delle organizzazioni locali, costruendo processi di cittadinanza attiva, aiutandoli a ottenere “potere nei
mercati” o ad ottenere dei servizi sanitari e educativi di migliore qualità. Poi quei progetti che costruiscono l’efficienza e l’affidabilità degli Stati, come i cosiddetti “cani da guardia” che controllano come il governo spende i soldi pubblici. Controproducente è invece il lavoro delle ong quando si sostituiscono allo Stato e ai servizi pubblici che questo dovrebbe assicurare.
Il governo italiano sta trasformando l’aiuto pubblico allo sviluppo in aiuto “privato” allo sviluppo, per garantire alle imprese di fare affari nei Paesi poveri. Succede anche nel resto del mondo?
Sembra essere una tendenza puramente italiana. Nel Regno Unito, negli Stati Uniti e nel mondo in generale, l’aiuto è cresciuto costantemente dall’anno 2000. Si assiste certo a una pressione sui budget degli aiuti a causa della recessione, ma i bisogni umanitari aumentano a causa soprattutto di disastri ambientali, causati dai cambiamenti climatici. Le nostre ricerche suggeriscono che il numero di persone colpite crescerà del 50% entro il 2015: bisogna trovare i soldi per questo, e anche per fronteggiare i cambiamenti climatici, aiutando i Paesi ad adattarsi al clima che cambia, a convertire la propria economia per una riduzione dei consumi di combustibili fossili. Questo vuol dire aumentare i finanziamenti pubblici e privati. Ad esempio il governo francese ha delle interessanti idee su come utilizzare le tasse internazionali per finanziare queste operazioni.
Quali sono i rischi di un ruolo “forte” del settore privato nell’aiuto allo sviluppo? Che ruolo giocano le grandi istituzioni internazionali?
Il settore privato ha diversi incentivi rispetto al settore pubblico, in modo particolare i profitti. Abbiamo bisogno degli investimenti del settore privato in settori specifici, come quello energetico, ma devono essere investimenti responsabili e ciò richiede regole, non solo approcci volontari. Il mondo, per affrontare tutti i problemi, ha bisogno di più istituzioni, non di meno. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale continueranno a giocare un ruolo fondamentale all’interno dello scenario planetario, ma c’è bisogno di riforme che riflettano i cambiamenti avvenuti dal momento in cui sono state fondate negli anni Quaranta. Sarebbe meglio, ad esempio, se da Washington si trasferissero in un Paese in via di sviluppo, per capire un po’ di più della realtà.

I due libri
Linda Polman interroga le organizzazioni non governative, il cui operato raramente viene affrontato con spirito critico e messo in discussione.
Nel libro L’industria della solidarietà (214 pp., 16 euro) la giornalista olandese documenta sul campo le dinamiche scatenate in diverse zone di guerra dall’arrivo massiccio di ong e aiuti umanitari.

La cittadinanza attiva e uno Stato efficace possono cambiare il mondo a favore degli ultimi. Questa la tesi che Duncan Green, capo-ricercatore di Oxfam International, sviluppa nel libro Dalla povertà al potere (Altreconomia, 2009, 504 pp. 29 euro) a partire dalle evidenze maturate sul campo dalla grande organizzazione internazionale.

Info: www.sbilanciamoci.org, secondo la campagna Sbilanciamoci! (cui aderisce anche Ae), nell’anno in corso il rapporto Aiuto pubblico allo sviluppo/Pil è sceso in Italia allo 0,09%, relegando il nostro Paese all’ultimo posto in Europa. Il governo è battuto dai governati: secondo Oxfam International e Ucodep, gli italiani hanno donato, già nel 2007, 330 milioni di euro contro i 326 dell’esecutivo

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