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L’affido impossibile e i minori in comunità

Nel nostro Paese un bambino abbandonato fatica a trovare una nuova famiglia. Vive in comunità, alimentando un mercato che vale quasi 2 miliardi  Gratosoglio, alle porte di Milano Sud, è un ex quartiere dormitorio messo per il lungo, schiacciato tra…

Tratto da Altreconomia 118 — Luglio/Agosto 2010

Nel nostro Paese un bambino abbandonato fatica a trovare una nuova famiglia. Vive in comunità, alimentando un mercato che vale quasi 2 miliardi 

Gratosoglio, alle porte di Milano Sud, è un ex quartiere dormitorio messo per il lungo, schiacciato tra Rozzano e via dei Missaglia. Superati il Teatro di Ringhiera di via Boifava e il parco giochi vicino alla scuola elementare, si arriva alla comunità per minori gestita dal Caf Onlus di Milano. È una delle 2.226 strutture che, in Italia, ospitano 12.513 minori che vivono fuori dalla loro famiglia di origine (circa il 15% sono stranieri) perché allontanati con decreto del Tribunale dei minori o perché abbandonati. Il Caf ospita una trentina di questi bambini fra 3 e 12 anni, che si trovano lì per vari motivi: abuso, violenza, stato di abbandono, condizioni economiche così disastrose da richiedere un intervento dei servizi sociali. Tutti fatti che avvengono tra le mura domestiche e nel 90% dei casi emergono attraverso la scuola, dove il disagio di un bambino difficilmente passa inosservato. La comunità serve per recuperare la dimensione di normalità, con ritmi di vita regolari, figure di riferimento affidabili e un supporto costante, e anche qui a Gratosoglio si cerca di fare le cose al meglio. Di fianco al cancello verde del Caf ci sono tre campanelli: “Gnomi” “Elfi” e “Folletti”, un nome per ogni casa-famiglia, una ogni dieci bambini. Entrando nella struttura, dalla grande vetrata nell’atrio si scorge lo skyline di palazzoni alti e cupi tipico degli hinterland metropolitani, poi, dopo i locali comuni (cucina, direzione, segreteria) si arriva alle porte dei tre appartamenti. Chi arriva da fuori può entrare da qui, ma chi ci abita passa dal cortile esterno perché ogni casa ha il proprio ingresso indipendente, come un normale condominio. Gli interni sono confortevoli, ci sono l’open space con la tv e il divano, tante foto appese alle pareti, cucina a vista e la zona notte: due bagni, tre camere da letto per i ragazzi, una stanza per gli educatori. “Ognuno arreda il proprio spazio come vuole, nel rispetto dei compagni di stanza -spiega la direttrice Tiziana Macciò-: questa è casa loro”. Ogni appartamento della comunità riproduce ambiente e dimensioni di una famiglia, come richiesto dalla 149/2001, l’ultima legge in materia di tutela dei minori, che modificando e integrando la precedente 184/83, sanciva la chiusura dei vecchi orfanotrofi entro e non oltre il 31 dicembre 2006. Nell’arco di cinque anni tutti gli istituti, noti per essere luoghi tristi e poco accoglienti, sono stati riconvertiti o hanno lasciato il posto a strutture più umane, le case-famiglia: non più di 6-8 ospiti nella stessa casa, due educatori fissi durante il giorno (due, come mamma e papà) un educatore di notte, e bambini di età diverse, come nelle famiglie “normali”. Al Caf si respira un’atmosfera solare e positiva: gli educatori sono professionali, la gestione funziona perché trenta ragazzi sono un numero accettabile e, siccome il Caf è una realtà ben integrata sul territorio -altra caratteristica richiesta dalla legge-, ci sono anche i volontari per le attività ricreative e di supporto alla scuola. Anche qui, però, pesa parecchio il problema che grava su tutto il sistema italiano della tutela dei minori: la permanenza ad oltranza di questi bambini e ragazzi in comunità. “Anche nella migliore delle strutture -dice Tiziana Macciò- dopo due anni al massimo, i bambini non resistono più, hanno bisogno di figure di riferimento, affetto e attenzioni solo per loro. Due anni in comunità sono già troppi, nella realtà ci sono bambini che rimangono ‘dentro’ anche molto di più”. Anche l’Oms dice che tutti i bambini hanno bisogno di una famiglia, quella di origine o quella affidataria, è una questione di salute ed è anche un loro diritto. Dopo il periodo in comunità, l’iter legislativo dovrebbe imboccare una delle tre strade indicate dalla stessa 149/2001: il rientro nella famiglia di origine, l’affidamento familiare o l’adozione. “Il minore -dice la legge- ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia e, in caso di temporanea impossibilità della stessa, a privilegiare tipologie d’intervento che diano priorità all’affidamento ad altra famiglia”.
Per come era stata pensata la legge, affidamento e adozioni dovevano essere potenziati e agevolati affinché le comunità fossero una sistemazione temporanea, non a tempo indeterminato. Ma è proprio qui che si inceppa il meccanismo. Da una parte il rientro nella famiglia di origine avviene in meno del 10% dei casi, quelli meno compromessi (per esempio gli allontanamenti per conflittualità tra i genitori che si risolvono con separazioni giudiziali), dall’altra l’adozione è legata a doppio filo al fenomeno dell’abbandono: non c’è adozione senza accertamento dello stato di abbandono, solo in questo caso il Tribunale dei minori dichiara lo stato di adottabilità. Di fatto questo accade solo quando il bambino viene partorito in segreto dalla madre e abbandonato in ospedale. In tutti gli altri casi è difficile recidere definitivamente il legame con la famiglia di origine, perché bastano un parente in vita, un fratello, o uno solo dei genitori biologici che prima o poi potrebbe richiedere la patria potestà e l’adozione diventa impossibile. In pratica, si tutelano i vincoli di sangue, ma nello stesso tempo i bambini diventano troppo grandi per essere adottati, pur essendo ancora minorenni. L’ultima chance per questi minori è l’affidamento familiare, istituto che permette a coppie o persone che si sono rese disponibili, ritenute idonee dai servizi sociali e autorizzate dal Tribunale dei Minori, di accogliere per un periodo più o meno lungo un ragazzino allontanato dalla sua famiglia. Dei circa 26mila minori che in Italia attualmente vivono fuori dalla loro famiglia, solo 13.159 hanno trovato una famiglia affidataria, pochi: superano appena il numero dei minori che vivono in comunità (i 12.513 già citati) mentre dovrebbero tendere ad azzerare questo numero. Ciò accadrebbe se il sistema della tutela dei minori funzionasse bene. Nel nostro Paese l’affidamento familiare non è decollato, perché sono mancati l’informazione e i fondi per sostenere chi si assumeva questa responsabilità, e anche se adesso qualcuno ha iniziato a parlarne, prima che l’affidamento diventi una pratica diffusa dovrà passare del tempo. Nel frattempo, schiere di minori stazionano per anni nel limbo delle comunità, e trascorrono un’infanzia trasversale. A livello nazionale il tempo medio di permanenza dei bambini nelle strutture residenziali per minori è di tre anni, ma ci sono regioni che raggiungono picchi di cinque-sette anni. Il record dei tempi di permanenza più lunghi lo raggiunge il Lazio, con 283 minori in comunità da più di due anni, 201 da più di un anno, 121 da più di cinque anni e 5 da più di dieci anni. A questo si aggiunge l’aggravante della forte mobilità dei minori da una struttura all’altra e un elevato numero di minori che provengono da adozioni o affidamenti familiari falliti (il 5% circa a livello nazionale), restituiti al mittente come pacchi postali. Oltre al costo umano, c’è un problema di soldi pubblici mal spesi. Il welfare spende per il mantenimento dei minori in comunità circa 1,9 miliardi di euro all’anno, una media di 75mila euro a bambino che coprono i costi sanitari, del personale, della scuola e delle attività extra-scolastiche. Ma i conti non tornano, perché mentre lo Stato spende tanto, le comunità lamentano la scarsità dei fondi pubblici e benedicono il buon cuore dei privati che di fondi per le comunità ne stanziano in abbondanza. “Con i soli soldi pubblici delle rette -spiega Tiziana Macciò- non potremmo andare avanti, perché per coprire tutti i costi serve almeno il doppio”. La situazione è critica: il sistema è lento e imperfetto, i Comuni e le Regioni, una volta fatti i controlli di routine, erogano le rette e lasciano tutto nelle mani degli enti gestori. Così l’efficenza del servizio diventa una prerogativa, del tutto arbitraria, di chi amministra la comunità e il panorama nazionale si frammenta, con differenze abissali tra una realtà e l’altra. E i soldi si perdono lungo la strada: “Gestire una comunità per minori, se nessuno controlla, può essere un’attività molto redditizia -racconta il criminologo Luca Steffenoni, che si occupa da anni di denunciare gli sperperi del sistema della tutela dei minori-. Lo Stato prevede una media di 200 euro al giorno a bambino. Nessuno però controlla che siano spesi bene. Non è un caso se ogni anno si costituiscono nuove cooperative di servizio che premono sul sistema per entrare nel mercato”.
Chi lavora bene ha bilanci trasparenti, si attiene alla legge e -dove la legge non arriva- ricorre al buon senso. Chi pensa al proprio business lavora male, con personale poco o per nulla qualificato e arriva anche ad accorpare sei, otto case famiglia. Esistono comunità che ospitano anche cento bambini per volta ma rientrano nei parametri di legge, basta salvaguardare il limite massimo per ogni unità abitativa. Così, in barba alla legge 149, lo Stato finanzia comunità vere e orfanotrofi camuffati da comunità.
Il miglior compromesso per tutti, tranne i bambini.

C’è chi "vale" di più
Lo stanziamento dei fondi per le comunità di accoglienza spetta ai Comuni, che di fatto sono gli enti affidatari dei minori allontanati dalle famiglie. Non fornendo servizi propri, i Comuni stipulano delle convenzioni con le onlus di privato sociale -per lo più realtà cattoliche proprietarie di terreni e strutture da destinare allo scopo- che gestiscono servizi di accoglienza sul territorio. Le convenzioni vengono rinnovate con l’approvazione dei piani di zona (di anno in anno, a cadenza quinquennale, a seconda del comune) sulla base di standard definiti dalle Regioni. Per ogni minore è prevista una retta giornaliera che varia da comune a comune o anche nell’abito di uno stesso comune. La media nazionale si aggira attorno ai 200 euro al giorno a bambino, in cui rientra tutto: psicologi, educatori, cooperative di servizio (cuochi, accompagnatori, personale di pulizia), Asl, scuola, attività extra e servizi sociali. Il Comune di Milano eroga rette che vanno da 50 a 130 euro al giorno e non aumentano da dieci anni. C’è chi, come il Caf, può contare sulla raccolta fondi ma questo dipende dalle onlus, non è uno standard condiviso da tutte le realtà. Se i fondi mancano la realtà crolla, come in Campania, dove alcune strutture di accoglienza sono state chiuse perché i comuni ritardavano ad erogare le rette. I bambini per cui non è stata trovata un’altra sistemazione sono tornati forzatamente alle famiglie di origine, che non erano pronte ad accoglierli perché il percorso con i servizi sociali non era ancora concluso o, peggio, perché non c’era nulla da recuperare.

Genitori si torna insieme
Hanno come simbolo le matrioske, la tradizionali bamboline russe, in cui la più grande contiene la più piccola. La scelta ovviamente non è casuale. Perché nelle case-laboratorio della cooperativa sociale Comin -30 anni di impegno per realizzare interventi educativi a favore dei bambini, 220 soci, di cui 130 lavoratori e 90 volontari, un capitale sociale di oltre 100mila euro, un prestito sociale di 600mila euro e un fatturato annuo di 3.000.000 di euro- situate nel quartiere Turro di Milano, succede esattamente questo: una famiglia ne incorpora un’altra, fino a quando quest’ultima non è in grado di badare a sé stessa. Per il progetto, Comin ha ristrutturato una vecchia casa di ringhiera di proprietà della parrocchia, ha creato altalene, scivoli e giochi per i più piccoli del quartiere e al secondo piano dell’edificio ha ricavato due appartamenti speciali. In giorni e orari diversi qui si alternano nuclei familiari fragili, famiglie con neonati in affido, ragazzi usciti dalla comunità che incontrano la famiglia di origine dalla quale erano stati separati. “Questi spazi  sono per genitori in difficoltà che hanno bisogno di un aiuto per recuperare il proprio ruolo e genitori che quell’aiuto vogliono offrirlo. Ci piace pensarli come incubatori di nuove relazioni, per questo ci è venuta in mente l’immagine della matrioska”, spiega il presidente della cooperativa Comin, Vincenzo Salvi. Attualmente sono coinvolte nel progetto 12 famiglie “fragili”, 40 famiglie sono impegnate nel rientro dalla comunità e 90 nuclei familiari sono stati orientati all’accoglienza. Info: www.coopcomin.org
 

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