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Ambiente / Opinioni

L’Accordo di Parigi è (già) un successo

Foto di gruppo in occasione della Cop21 di Parigi, la Conferenza delle parti ONU sui cambiamenti climatici

La lotta al riscaldamento globale è diventata una priorità globale. Per questo il “protocollo” Onu sottoscritto in Francia entrerà in vigore in meno di un anno. “Il clima è (già) cambiato”, l’editoriale di Stefano Caserini

Tratto da Altreconomia 186 — Ottobre 2016

È una buona notizia che Stati Uniti e Cina abbiano annunciato l’intenzione di ratificare l’Accordo di Parigi: le emissioni dei due Paesi se sommate sono quasi il 40% del totale globale. Sono pari a quelle di Africa, America Latina e del resto dell’Asia (Russia e Giappone esclusi).

L’Accordo di Parigi ha obiettivi molto ambiziosi (“mantenere l’aumento delle temperature globali ben al di sotto dei 2°C e fare sforzi per non superare 1,5°C”), che per essere raggiunti richiedono una frenata brusca alle emissioni di gas serra, ossia rottamare in pochi decenni il sistema energetico basato sui combustibili fossili e azzerare la deforestazione. Quindi rendere operativo velocemente questo Accordo -che potrebbe entrare in vigore in meno di un anno dalla sua approvazione, entro novembre di quest’anno- è cruciale. Più si aspetta, più sarà difficile rispettarlo, dopo.

Che cosa succederà, dunque, con l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi? Sarà davvero utile? Il percorso del negoziato sul clima è da sempre lungo e complesso, composto da decine di tavoli di lavoro paralleli, su argomenti diversi. È un lavoro incrementale, richiede il consenso di tutti gli attori e alti livelli di trasparenza. Da qui la lentezza, a volte esasperante. Con l’entrata in vigore dell’Accordo saranno tante le azioni operative del negoziato, in molti settori; nessuna decisione sarà determinante, ma ognuna sarà un tassello per dare robustezza e coerenza a un cambiamento globale in settori chiave delle economie di tutto il mondo (energia, edilizia, agricoltura).

La principale delle piattaforme di lavoro è quella dell’“implementazione” dell’Accordo, che semplificando vuol dire spingere tutti i Paesi ad aggiornare i loro impegni, aumentando i loro tagli alle emissioni rispetto a quelli già condivisi a Parigi. Un altro cruciale è quello sulle procedure di verifica dei dati delle emissioni e delle azioni intraprese, per evitare furbetti e furfanti. Un altro tema caldo di discussione è il supporto ai Paesi più poveri, per aiutarli a rinunciare ai combustibili fossili o a gestire gli impatti dei cambiamenti climatici che già si stanno verificando.

55 è il numero di Paesi che devono ratificare l’Accordo di Parigi per renderlo operativo, a condizione che siano responsabili di almeno il 55% delle emissioni globali di gas serra

Ma il segnale dell’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi è anche un altro, più politico, sulle strategie di lungo termine: formalizza che i combustibili fossili sono dalla parte sbagliata della storia. Non hanno futuro, sono il passato.

E l’Italia? Poco si muove sulle politiche sul clima. Far parte dell’Unione europea fa sì che la strada sia tracciata e alcune azioni su clima e l’energia vengono avviate anche nel nostro Paese, seppur con ritardi e lentezze. Per gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sarebbe necessario cambiare marcia, far salire questo tema ai primi posti dell’agenda della nostra classe politica. L’Italia ha dichiarato l’intenzione di completare il processo di ratifica entro la COP22 che si tiene a novembre 2016 a Marrakech, e anche l’Ue vorrebbe farlo, ma questo richiede il consenso di tutti gli Stati Membri.

Sarebbe, per l’Europa, un modo per non perdere la leadership che storicamente ha avuto nel negoziato sul clima; e per non perdere ulteriormente la sua credibilità.

Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2016)

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