Diritti / Approfondimento
L’abbandono nell’ospedaletto del Cpr di Torino dove quattro anni fa è morto Moussa Balde

Già nel 2016 Medici per i diritti umani, durante una sua visita, aveva fotografato la brutalità delle 12 “gabbie pollaio” utilizzate come luoghi di isolamento per i trattenuti nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Corso Brunelleschi. In quelle celle, il 23 maggio 2021 fa si è tolto la vita il 23enne di origine guineana. Il processo in corso, però, si sta rivelando un’occasione persa per fare chiarezza
È il 10 marzo 2016 quando la Ong Medici per i diritti umani (Medu) fa visita al Centro di permanenza per il rimpatrio “Brunelleschi” di Torino rimanendo “scioccata” per un’area della struttura: il cosiddetto “ospedaletto”, formato da 12 celle di pochi metri quadrati, ognuna con un piccolo affaccio all’esterno totalmente circondato da sbarre. “Qui non lascereste neppure i cani”, racconta un trattenuto ai membri della delegazione.
Rileggere il contenuto del report della visita a quattro anni dalla morte di Moussa Balde fa impressione: proprio in quelle “gabbie pollaio”, così come le definì l’allora Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma, il 23enne originario della Guinea si è suicidato tra il 22 e il 23 maggio 2021. Ben cinque anni dopo quella visita che già certificava, con tanto di evidenza pubblica, l’illegittimità e la brutalità di quel luogo.
Nel documento che fa seguito a quell’accesso, infatti, Medu documenta chiaramente che vi sono “criteri poco definiti” secondo cui alcune persone vengono trasferite in quel luogo e altre no. Le testimonianze di chi quel giorno è chiuso nell’ospedaletto lo rendono evidente. Due persone dichiarano che il motivo dell’isolamento è “punitivo”, per “ragioni disciplinari”: uno di loro si era gettato dalla macchina in autostrada durante un trasferimento, l’altro era stato trovato con un accendino in tasca.
La narrazione dell’ente gestore, invece, è ben diversa: i rappresentanti della società francese Gepsa e dell’associazione Acuarinto, che all’epoca gestivano il centro, dichiarano alla delegazione che il collocamento nelle “gabbie” avviene “per richiesta personale (dei trattenuti, ndr) di isolamento, per la presenza di malattie infettive, per dichiarata diversità di orientamento sessuale o incompatibilità con gli altri ospiti”. Una via di mezzo tra una presunta motivazione di tipo sanitario -nonostante l'”ospedaletto” sia il punto più lontano dall’infermeria- e di tutela dell’incolumità della persona. Anche questa “motivazione”, però, si scioglie come neve al sole.
Nel documento infatti si dà conto di un’altra persona messa in isolamento di 43 anni e di origine tunisina. “Presenta una diagnosi di disturbo correlato all’uso di sostanze (alcol, cocaina e sedativi ipnotici) affetto da evidente disturbo di personalità, emotivamente instabile e di tipologia impulsiva -si legge nel documento- [L’uomo] si presentava in evidente stato di agitazione psicomotoria, verbalizzando intenzioni suicide”. Eppure non vi è stata “alcuna presa in carico psichiatrica […] e neppure si è proceduto a visite specialistiche”. Insomma, già nel marzo 2016 si concretizzava l’abbandono e l’isolamento dei più fragili e “problematici” in quell’area.
Era nota a tutti quindi la vera natura di quell’area del Cpr. La stessa in cui tra il 7 e l’8 luglio 2019 è morto Hossain Faisal, originario del Bangladesh, 32 anni. La sua storia è finita ben presto nel dimenticatoio nonostante la brutalità dell’isolamento che l’uomo ha subito, salvata dall’oblio solo da un report del giugno 2021 pubblicato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) intitolato “Il libro nero del Cpr di Torino“.
Il 16 febbraio 2019 l’uomo entra nel Cpr e viene messo subito nell’”ospedaletto” nonostante la visita svolta all’ingresso evidenzi che il paziente è “confuso e disorientato”. Si decide di farlo entrare in struttura, per metterlo in osservazione qualche giorno e poi “stabilire se tenerlo oppure dichiararlo non idoneo”. Due giorni dopo viene scritto nuovamente che “l’ospite appare confuso, poco presente, rifiuta qualsiasi tipo di dialogo ripetendo sempre le stesse parole confuse”.
La cella del cosiddetto “ospedaletto” dove è stato ritrovato morto Hossain Faisal tra il 7 e l’8 luglio 2019. Le foto sono state scattate dalla polizia scientifica che si è occupata delle indagini. Il procedimento penale è stato poi archiviato
Anche i colloqui con la psicologa del centro, il 4 marzo e il 6 maggio, sono un buco nell’acqua. Hossain resta in silenzio, rifiuta vestiario e ciabatte, nonostante cammini scalzo e chieda solo una sigaretta, anche la sua igiene è molto scarsa. Nel silenzio dell’”ospedaletto” muore l’8 luglio 2019 nella stessa cella in cui era stato collocato quasi cinque mesi prima. “Nella consulenza autoptica si parla di morte improvvisa cardiaca su base verosimilmente aritmica; da qualche tempo non dormiva neppure nella stanza ma per terra, nel minuscolo cortiletto antistante”, scrivono gli avvocati dell’Asgi nel documento. Il processo sulla morte di Hossain Faisal viene archiviato come “morte naturale” accettando che una persona possa “semplicemente” venire “dimenticata” in una cella, che non ha nessuna base giuridica, per mesi.

L’”ospedaletto” continua così imperterrito a esistere. E lo si problematizza solo dalla mattina del 23 maggio 2021. Moussa Balde, 23 anni, originario della Guinea, viene trovato impiccato nella cella numero nove. Un paio di settimane prima, il 9 maggio, era stato brutalmente picchiato da tre persone fuori da un supermercato di Ventimiglia (IM). Da vittima, però, ben presto era diventato l’irregolare da “isolare” e “trattenere”. Pochi giorni dopo il suo ingresso viene isolato e messo nel dimenticatoio. La sera del 22 maggio l’infermiera appoggia i farmaci della terapia fuori dal muretto antistante la porta della sua cella. Lo chiama, lui non risponde. Il bicchierino con le pillole rimarrà lì, perché Moussa non uscirà mai per prenderlo. Non si sa ancora se in quel momento fosse già morto, ed è uno dei punti che dovrà chiarire il processo in corso al Tribunale di Torino. Sono imputati l’allora direttrice del centro e il medico, entrambi assunti dall’ente gestore Gepsa.
Quello su cui non farà luce il processo, invece, è la catena di omissioni e complicità che ha portato quel luogo a esistere e venire utilizzato per oltre dieci anni. I funzionari della prefettura, che ha un dovere giuridico di controllo sulla gestione del centro da parte dell’ente privato, non sono mai stati indagati; quelli della questura invece sì. La loro posizione però è stata archiviata per mancanza di “dolo” nelle loro azioni. Un “si è sempre fatto così” che li ha sollevati da ogni responsabilità penale.
Già nel 2016 però la brutalità e l’illegittimità di quel luogo era ben visibile per chi avrebbe potuto (e dovuto) vederla. Oggi l’ospedaletto dove sono morti Hossain Faisal e Moussa Balde è stato definitivamente chiuso. Resta invece operativo il Cpr di Corso Brunelleschi, che a due mesi dalla sua riapertura è già inagibile per due delle tre aree ristrutturate nei mesi scorsi. Anche senza celle di isolamento, inghiottisce biografie e vissuti restituendo all’esterno solo fiamme e sofferenza.
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