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La vittoria delle vigne biologiche

Secondo un rapporto dell’Istat in Italia si consolida la viticoltura “bio”. L’agricoltura è già cambiata

Tratto da Altreconomia 235 — Marzo 2021
© Tim Mossholder - Unsplash

La rivoluzione delle vigne biologiche in Italia è un dato di fatto: in Basilicata e in Calabria ormai una vigna su due è coltivata senza usare prodotti chimici di sintesi. Fertilizzanti, diserbanti, insetticidi e anticrittogamici sono banditi perché i campi sono condotti in regime di agricoltura “bio”. Un working paper, pubblicato da Istat a gennaio 2021, evidenzia che le prime cinque Regioni per superficie vitata certificata al 31 dicembre 2018 erano Calabria (50,5%), Basilicata (48,4%), Marche (36,4%), Sicilia (28,9%) e Toscana (28,1%). In tutta Italia, le vigne “bio” occupano 106.446 ettari, pari al 16,9% della superficie vitata. In termini assoluti, oltre 60mila ettari in più rispetto al 2010, quando i vigneti bio erano il 6,6% del totale. 

“Per un vignaiolo questa scelta è più semplice rispetto a quella di altri agricoltori. Da un lato, abbiamo a disposizione ausilii tecnologici come le macchine che lavorano l’interfila che aiutano chi sceglie di non usare più diserbanti. Dall’altro, è in crescita la richiesta di vino certificato in mercati importanti come il Nord Europa, gli Stati Uniti e il Canada”, sottolinea Matilde Poggi che guida la Federazione italiana vignaioli indipendenti (FIVI, fivi.it), sindacato che rappresenta circa 1.300 soci, il 50% dei quali sono biologici. La sua azienda, Le Fraghe, a Cavaion Veronese (VR) è certificata dal 2009. “Allora nella zona di Bardolino ero tra le poche, oggi molti vicini hanno intrapreso la stessa strada. Sogno che l’Italia possa diventare tutta biologica: un vantaggio importante per l’ambiente e i terreni. È una scelta che credo sia più facile per i vignaioli, cioè quei produttori che valorizzano il frutto prodotto arrivando fino all’imbottigliamento, curando tutta la filiera”.

16,9% è la superficie vitata occupata da vigneti bio nel 2018 in Italia sul totale degli ettari dedicati alla produzione di vino

La certificazione biologica, per Poggi, è un primo passo per modificare l’approccio in cantina perché così facendo “ti abitui a fare sempre di meno, a lavorare per portare in cantina uva sana e a usare meno additivi nel processo di trasformazione”. Il vino è infatti un alimento dall’etichetta poco trasparente che informa soltanto che il prodotto contiene solfiti. Nel processo di trasformazione possono essere utilizzati la colla di pesce (per la chiarificazione) e aggiunti pezzi di legno di quercia, ma queste pratiche restano nascoste. La “Carta di qualità” dell’associazione La Reinassance des appelations-Italia, ad esempio, proibisce l’uso dei trucioli di legno e della colla di pesce ma anche ogni intervento di acidificazione o deacidificazione del vino usando composti chimici come acido lattico o carbonato di calcio.

“C’è bisogno di consapevolezza, di capire l’azienda come un organismo agricolo che va oltre la monocoltura” – Elisabetta Foradori

“Il ‘biologico’ è un primo passo verso la consapevolezza che serve un’agricoltura più spontanea, ma il ‘bio’ rischia di essere solo una ricetta applicata a partire da disciplinari standard, a misura di produzione industriale”, spiega Elisabetta Foradori, vignaiola in Trentino e portavoce di Reinassance in Italia. Intende dire che la certificazione non mette al centro “la fertilità della terra” e non passa per una necessaria “rivitalizzazione del terreno, usando ad esempio pratiche di compostaggio, azioni che coinvolgono ben di più che il non usare sostanze chimiche e pesticidi”. Nella sua vigna dopo la vendemmia per sei mesi pascolano sei vacche di razza Grigio Alpina, con cui produce formaggio: “C’è bisogno di consapevolezza, di capire l’azienda come un organismo agricolo che va oltre la monocoltura”, conclude Foradori.

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