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Opinioni

La via per abbattere le tasse

Il carico fiscale italiano -alto e mal distribuito- produce impoverimento generale ed innalzamento della morosità. Per immaginarne l’abbattimento è necessario uscire dall’incubo dei vincoli europei e risolvere il "nodo" delle tasse su lavoro e imprese. Il commento di Alessandro Volpi

La riduzione della pressione fiscale in un Paese asfissiato dalla stagnazione dei redditi e dalla ritirata degli investimenti rappresenta una strada obbligata. Partendo da questa constatazione dovrebbe articolarsi un’ampia discussione politica che sappia andare oltre le geometrie ideologiche definite sulla base di un modello di Stato ormai largamente inadeguato. 
 
I richiami al patrimonio ideale del Novecento, fondato sulle distinzioni fra un liberalismo avverso alle tasse e una socialdemocrazia propensa ad accettare robuste forme di prelievo, in nome della tenuta dei sistemi di welfare, non reggono più. Se la pesantezza della pressione è tale da ridurre in maniera evidente la capacità di contribuire di intere fasce di popolazione e da spiaggiare migliaia e migliaia di imprese, allora il tema dell’abbattimento del carico tributario non è rinviabile. Così come non è pensabile neppure che il 38% dei contribuenti italiani paghi l’86% dell’Irpef riscossa, e che per quanto riguarda la spesa sanitaria 45 dei 110 miliardi non siano coperti dalla capacità contributiva di una parte degli italiani e siano quindi a carico degli altri, costretti a pagare anche per i contribuenti “insufficienti”. 
 
In estrema sintesi, sono troppe le distonie del sistema fiscale italiano: il carico è alto e mal distribuito, con il rischio costante di accrescere l’impoverimento generale e di innalzare la morosità. D’altra parte, il recente abbattimento della base imponibile dell’Irap, deciso dalla legge di Stabilità dell’anno passato, non ha generato una sensibile flessione degli incassi, determinando invece un gettito superiore alle attese. Serve davvero, allora, una nuova stagione che non cada nell’errore di accettare ipotesi preconfezionate e decisamente usurate, pensate per strutture e soggetti sociali che non esistono più. Per dare un contributo ad un simile dibattito possono essere isolati due punti forse più evidenti di altri. 
 
1) È indispensabile uscire dall’incubo dei vincoli europei e dal nodo scorsoio del pareggio di  bilancio come dato strutturale. Solo per evitare che scattino le clausole di salvaguardia, imposte dai Trattati, e si materializzi un pesante aumento dell’Iva, occorrono ben 12 miliardi di euro, una cifra, da sola, destinata a rendere impossibile qualsiasi  riduzione della pressione fiscale. Non possiamo più ammettere l’idea di un’Europa che si regga su condizioni capestro, molto simili a vere e proprie fideiussioni imposte a Stati sovrani: la dimensione politica del Vecchio Continente deve partire da un comune atto di fiducia, senza il quale prevarranno gli sciovinismi e gli egoismi territoriali. Il costo totale dell’eliminazione delle imposte sulla prima casa, della revisione del prelievo sulle imprese e delle aliquote Irpef può raggiungere i 35 miliardi in poco meno di tre anni, cui se ne aggiungerebbero altri 15 per stabilizzare il bonus degli 80 euro e la de-contribuzione introdotta nel 2015: non è in alcun modo pensabile reperire simili risorse attraverso operazioni di spending review, perché significherebbe portare al collasso la spesa pubblica per i servizi essenziali. 
Meglio semmai ricorrere ai risparmi derivanti dalla centralizzazione degli acquisti, in grado di liberare almeno 2-3 miliardi di euro, senza farsi però troppe illusioni. Non è concepibile neppure affidarsi alla sola, pur fondamentale, lotta all’evasione, in quanto l’attività in tale direzione ha tempi ed esiti che contengono margini di incertezza non compatibili con la copertura, certa, di una riforma fiscale così rilevante. 
Ancora una volta il tema centrale sono i vincoli europei. L’Italia nei prossimi anni manterrà un avanzo primario significativo e resterà ampiamente sotto il 3% del rapporto deficit-Pil, riuscendo al contempo a non far lievitare il proprio debito, se non interverranno condizioni straordinarie. In estrema sintesi, dal punto di vista della contabilità pubblica, sarà un Paese virtuoso che, grazie ai compiti fatti a casa a partire dal 2011 e al salvataggio europeo della Grecia, non dovrebbe conoscere particolari turbolenze. Tuttavia, questa condizione non è sufficiente per rispettare gli impegni imposti dalla somma micidiale di Maastricht, Fiscal compact e altre amenità di recente fattura, prodotte dall’ultrarigorismo di matrice nordica. 
Sulla scorta di simili vincoli, è necessario infatti che l’Italia realizzi un deficit in calo all’1,4% nel 2016 e allo 0,8 nel 2017 per approdare al fatidico 0. In estrema sintesi, non basta essere virtuosi, occorre risultare ascetici. 


Perché l’Europa non consente all’Italia di fermarsi al rispetto del parametro del 3%, evitando l’aumento del debito ma senza dover arrivare in un arco di tempo troppo stretto al pareggio di bilancio? Fermarsi sotto il 3% invece che dover scendere al pareggio significherebbe per il nostro Paese avere a disposizione, da qui al 2017, oltre 30 miliardi di euro da destinare alle finanze pubbliche, rendendo possibile in buona misura una riforma fiscale. 
Del resto i numeri stessi sembrano muoversi in tale direzione. La Francia è alle prese con un rapporto deficit-Pil che viaggia sopra il 4% e farà molta fatica a rientrare al di sotto della soglia del 3% che peraltro è priva di ogni significato per le grandi economie mondiale a cominciare dagli Stati Uniti, tutte ben oltre questo limite. Inoltre è assai difficile capire quale sia la differenza sostanziale che intercorre fra un disavanzo dell’1,5 e il pareggio di bilancio in un panorama dominato dalla deflazione, dal calo dei consumi e dall’affannosa condizione degli investimenti. 
Dunque, una delle soluzioni possibili per realizzare la più importante riforma per il "sistema Italia" deriva dalla necessità di rivedere in maniera organica le politiche europee, superando un impianto che non regge più e produce solo effetti regressivi: se per tagliare le imposte bisogna togliere dalla spesa pubblica altri 35 miliardi, l’esito non può essere che quello di un’ulteriore depressione del prodotto interno lordo. 
Se si ammettesse un rapporto deficit-Pil al 3% e si prendesse atto che un indebitamento pari al 100% del Pil è fisiologico in un Pianeta dove il debito, pubblico e privato, è esploso, si aprirebbe al contrario uno scenario nuovo in grado di trascinare non solo l’Italia verso l’uscita dalla crisi. 
 
2) Per dare corpo a una riforma fiscale capace di cambiare il Paese bisogna avere chiaro da dove partire. Forse eliminare in toto e subito l’imposizione immobiliare sulla prima casa rischia di costare troppo e di non generare con altrettanta rapidità benefici in termini di consumi e di ripresa più generale. Potrebbe essere più convincente e meno costoso perseguire la soluzione di alleggerire l’imposizione sulle famiglie con un mutuo, come descritta sulle pagine del “Corriere della Sera” da Lucrezia Reichlin e Paolo Surico. 
Tale prospettiva lascerebbe più spazio per la riduzione di altre voci fiscali e determinerebbe in termini di ripresa dei consumi un effetto molto vicino a quello di un’abolizione generalizzata. Per favorire la ripresa del sistema Paese, infatti, è molto probabile che il vero nodo da sciogliere sia quello della contrazione del carico fiscale su lavoro e imprese perché di lì, piuttosto che dal rilancio dei consumi, può ripartire la capacità di produrre ricchezza. 
Scendere dal 31,4 al 24% di imposizione sulle imprese, in un arco di tempo limitatissimo, è molto difficile; tuttavia il tragitto, anche in questo caso, pare obbligato. Concepire un Fondo nel quale far confluire il recupero dell’evasione fiscale, gli esiti del miglioramento della riscossione e i “risparmi” derivanti dal disboscamento della giungla delle agevolazioni fiscali può fornire le coperture ad un siffatto abbattimento di Ires e Irap, senza procedere a impossibili tagli di spesa sociale. 
Come accennato, solo con una spinta forte alla capacità di produrre reddito sarà possibile immaginare una diversa, e necessaria, distribuzione del carico Irpef e un rilancio dei consumi. Non avrebbe senso, al contrario, ipotizzare un percorso inverso che parta dalla alimentazione fiscale dei consumi. Ancora una volta pare assai improbabile affrontare questa discussione con strumenti presi in prestito dal lessico del Novecento perché quel secolo è ormai, ineluttabilmente, finito. 
 
* Università di Pisa

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