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Esteri

La via crucis che attraversa il Messico

Soprusi, furti e omicidi. Tra gruppi criminali e poliziotti corrotti, per molti centroamericani la strada verso gli Stati Uniti è lastricata di violenza Saltillo (Messico) – Nella Posada del migrante “Belen”, l’instancabile Madre Lupita e volontari messicani e internazionali accolgono…

Tratto da Altreconomia 112 — Gennaio 2010

Soprusi, furti e omicidi. Tra gruppi criminali e poliziotti corrotti, per molti centroamericani la strada verso gli Stati Uniti è lastricata di violenza

Saltillo (Messico) – Nella Posada del migrante “Belen”, l’instancabile Madre Lupita e volontari messicani e internazionali accolgono decine, a volte centinaia, di migranti centroamericani. Molti di loro si fermano a riposare e a rifocillarsi nel lungo e difficile cammino verso gli Stati Uniti d’America. La casa di accoglienza si trova a Saltillo, capitale dello Stato di Cohauila, nel Nord-est messicano.
Don Pedro Pantoja è l’anima del progetto Belen e una persona di grande carisma e umanità: “Saltillo è un importante snodo ferroviario-spiega-, e per questo è diventato un luogo di passaggio dei migranti a Nord-est”. Huberto e Jesus, due volontari messicani, mi accompagnano a “las vias”, ovvero ai binari della ferrovia. Incontriamo tre migranti: due honduregni e un messicano. Dopo essersi fermati alla casa hanno deciso di riprendere il cammino. La loro prossima tappa sarà Monterrey, poi Reynosa e, se va tutto bene, il confine attraversato dal Rio Bravo. Salire sul treno in movimento è molto pericoloso, e tante sono le persone che perdono l’aggancio e finiscono sotto i binari, uccise o orrendamente mutilate. La geografia umana presente alla mensa  racconta una stragrande maggioranza di honduregni e un’età media che difficilmente supera i venti anni. Sono presenti anche donne, pur in un numero ridotto rispetto al totale. “La Posada Belen -spiega Don Pedro- è una di quelle disseminate in tutto il Messico, lungo le principali arterie ferroviarie. Il nostro obiettivo è quello di offrire rifugio ai migranti, garantendo accoglienza, cibo e cure mediche”. Il “viaggio della speranza” di migliaia di centroamericani racconta storie incredibili di soprusi, violenze, furti e omicidi, perpetrati da soggetti senza scrupoli che si approfittano della debolezza degli indocumentados, rendendo il loro percorso pieno di pericoli ed incerto. Don Pedro racconta l’origine del loro progetto: “Il Messico ha avuto negli anni 70 e 80 una tradizione di accoglienza dei rifugiati centroamericani che scappavano da dittature e guerre civili in corso nei loro Paesi”. La tradizione si è persa nel tempo, e il Paese adesso ha un approccio violento e repressivo nei confronti degli immigrati, funzionale alla politica migratoria del suo ingombrante vicino, ovvero gli Stati Uniti d’America. “Il nostro impegno -prosegue Don Pedro- nasce a seguito di una serie di fatti di sangue, come l’uccisione di Ismael, un giovane migrante, da parte delle guardie private assunte dalle compagnie di trasporti, sparizioni di persone, mutilazioni a causa dei treni e diversi omicidi. Bisognava fare qualcosa ed è nato il progetto della Posada, alla quale abbiamo affiancato un lavoro politico e sociale sul territorio, per far accettare il fenomeno migratorio ad una società conservatrice come quella di Saltillo, e un progetto giuridico grazie al quale seguiamo i migranti, raccogliamo le loro denunce e ne diamo seguito presso le autorità giudiziarie”.
A partire dalla fine del 2008, le interviste fatte all’arrivo di centinaia di persone alla casa riportano molti casi di sequestri di persona da parte di un’organizzazione criminale che si chiama “las Zetas”, il braccio armato del “Cartello del Golfo” che in Messico controlla il traffico di droga. “Le persone -racconta Paula, avvocatessa, che assieme a Luis, Alberto e Sandra lavora per l’associazione civile Humanidad Sin Frontera, seguendo il  progetto giuridico della casa- vengono sequestrate sui treni o nelle città di passaggio, raccolti in abitazioni isolate e torturate fino a che non danno il numero di telefono dei familiari che possano pagare il loro riscatto”.
Il sistema funziona grazie alla corruzione, diffusa dentro le forze di polizia, in particolare quelle migratoria e federale, che fanno affari con le bande criminali. A darmi la dimensione del livello di corruzione presente dentro gli organi di polizia messicani è un signore che viene chiamato “Chuk Norris” per la somiglianza, solo somatica, con l’attore di destra americano. Chuk da quattro anni viene ogni sera alla casa e spiega ai migranti nuovi arrivati come attraversare il confine senza morirci, magari affogati nel Rio Bravo, e senza dover finire in mano dei coyote, persone dedite al trasporto oltre confine dei migranti che nell’ultimo periodo hanno cominciato a consegnare le persone alla stessa Zetas. “Il 70% e forse più delle forze di sicurezza messicane -dice Chuk- sono corrotte e fanno affari con il crimine organizzato. Ogni anno sono 10mila i  sequestri registrati in Messico, per un giro di affari di oltre 25 milioni di dollari”. Quando non ti sequestrano vieni derubato e picchiato dalla stessa polizia migratoria, municipale e federale, oppure finisci ucciso negli assalti armati ai treni che queste bande criminali fanno lungo le ferrovie. Cosa accade ai sequestrati, oltre a leggerlo nel rapporto annuale realizzato dalla Posada del migrante Belen, me lo racconta Jesus, un salvadoregno di quasi 40 anni. Porta ancora addosso i segni della cruenta guerra civile combattuta nel suo Paese, quando aveva dieci anni, forzatamente arruolato nelle file del Frente Farabundo Martì per la liberazione nazionale (Fmln). La “guerra” che mi racconta, però, è un’altra: migrante in transito nel Nord del Messico, Jesus è stato sequestrato con altri 30 connazionali e una coppia di honduregni e condotto in una casa. Là dentro è stato un mese, e due volte al giorno veniva appeso a una carrucola e picchiato per ottenere il numero di telefono”. Un giorno -racconta- volevano violentare la ragazza hondurena e noi ci siamo opposti, disarmando la guardia. Ma subito sono arrivati gli altri che mi hanno disarmato e picchiato.
Poi hanno ucciso con un colpo alla testa il compagno della ragazza, per abusare ripetutamente di lei”. Nella posada (casa) ci sono ragazzi che per la terza o quarta volta stanno tentando di attraversare il confine. Riescono a fermarsi qualche anno negli Stati Uniti d’America e poi per motivi più o meno gravi, dall’uso di stupefacenti alla guida senza patente, vengono identificati ed espulsi. Riposano qualche mese e poi riprendono il cammino verso il loro “sogno americano” Alla Posada è un via vai di persone, ognuno ti racconta la sua storia. Chiedono se rimanere in Italia è così difficile come negli Usa, e come vivono gli immigrati nel nostro Paese. L’ultima sera, di fronte a un cero acceso, in preghiera, ci salutiamo. Ognuno regala un pensiero e si porta dietro un ricordo. Attorno a quella luce imprimo nella mente volti che non rivedrò più. Chissà che fine faranno. Povero il loro Messico, così vicino a Dio stasera, ma ancora così lontano dagli Stati Uniti.

Le vene aperte dell’America centrale
Il flusso annuale di migranti messicani e centroamericani verso gli Stati Uniti è impressionante. La popolazione messicana residente negli Usa ammonta a circa 26,7 milioni di persone. Il rapporto tra immigrati regolari ed irregolari è di 18 a 100. Minore in cifre assolute, ma non relative, è lo stesso dato relativo ai Paesi centroamericani, per i quali si stima che il flusso di migranti verso gli Stati Uniti d’America si attesti tra  20 e il 40% della popolazione (escluso il Costa Rica). Si stima, ad esempio, che 2,75 milioni di salvadoregni risiedano negli Usa: ogni giorno da El Salvador 700 persone intraprendono il “viaggio della speranza”, mentre il tasso di espulsioni (255.550 in un anno) è doppio rispetto a quello di crescita delle popolazione sul territorio statunitense.

È colpa del Nafta
Con l’avvento delle politiche neoliberali in Messico, in particolare con la firma nel 1994 del trattato di libero commercio Nafta (North America Free Trade Agreement), stipulato con Canada e Stati Uniti, le condizioni socio-economiche del Paese sono peggiorate e con esse sono aumentati i flussi migratori, in particolare dalle aree rurali. Secondo l’allora presidente Carlos Salinas De Gortari, il Nafta avrebbe definitivamente sancito l’ingresso del Paese nel “primo mondo”, garantendo crescita economica e benessere. A sedici anni dal trattato, la realtà è tutta un’altra cosa. Due milioni di agricoltori sono usciti dal mercato a causa della concorrenza dei prodotti agricoli esportati dagli Usa. Ogni anno, in Messico, un milione di giovani entra in un mercato del lavoro che non è in grado di assorbirli.
Secondo Laura Carlsen, direttrice dell’Americas Program dell’International Relations Center (Irc),  “a partire dal Nafta l’economia messicana si è basata su quattro pilastri: l’economia informale, le risorse naturali non rinnovabili, il traffico di droga e le rimesse degli immigrati”. Stessa storia per il Centro America, che con gli Stati Uniti ha firmato l’accordo di libero scambio Cafta (Central America Free Trade Agreement). Nella regione, 1,5 milioni di persone dedite alla produzione di riso hanno perso il lavoro. Nel Salvador la disoccupazione nelle aree rurali è aumentata del 71%, anche a causa delle crisi economica generale del Paese.  Nessuno pare volere questi immigrati, che tuttavia sono una risorsa sia per l’economia messicana che per quella Usa, dove rappresentano una forza lavoro a basso costo.

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