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Ambiente

La testa nella sabbia

La conferenza Onu sui cambiamenti climatici, tenutasi a Doha a dicembre, ha deluso le aspettative di chi sperava in un impegno concreto. Dal nostro inviato

Tratto da Altreconomia 145 — Gennaio 2013

Alle 19 ora dell’emirato del Qatar dell’8 dicembre 2012, la comunità internazionale formalizza un cambio di prospettiva storico nella lotta al riscaldamento globale. Si chiude la 18° Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico, che dal 26 novembre al 7 dicembre ha trasformato Doha nella meta desiderata per gli oltre 17mila delegati accreditati al vertice. Un evento da molti considerato sottotono, ma comunque punto di arrivo di una tendenza resasi esplicita diversi anni prima, alla fine del 2009 nella capitale danese di Copenhagen.
Ma andiamo con ordine. Molte erano le questioni sul tavolo, dalla carenza di ambizione dei Paesi maggiori inquinatori nel tagliare le emissioni di CO2 alla gestione del patrimonio forestale, per arrivare alla crisi dei mercati del carbonio. Ma tre hanno tenuto banco nel percorso di avvicinamento alla COP18: il Protocollo di Kyoto, l’avvio definitivo del Green Fund per finanziare politiche di adattamento e mitigazione delle emissioni e i primi passi del grande accordo globale sul clima, da mettere in moto a partire dal 2020.
Il Protocollo di Kyoto, approvato nel 1997 e tra i pochi accordi internazionali realmente vincolante sulle questioni ambientali (dopo quello di Montreal sul buco nell’ozono del 1987), ha governato il regime di lotta al climate change, ed i negoziati corrispondenti, nel corso degli ultimi quindici anni. Oggetto del contendere era l’approvazione di un secondo periodo di impegni previsto dal Protocollo stesso, il cosiddetto Kyoto 2, e che avrebbe dovuto seguire il primo periodo (2008-2012) durante i quali i Paesi industrializzati avrebbero dovuto tagliare le emissioni di una data quantità, definita internazionalmente.
Il Green Fund nasce a Copenhagen nel 2009 e diventa operativo nel 2010 alla Conferenza di Cancun (COP16). Prevede uno stanziamento di breve termine, circa 30 miliardi di dollari entro il 2012, e uno di lungo periodo, circa 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per sostenere il taglio delle emissioni e l’adattamento a un clima che cambia. Soldi che sarebbero dovuti uscire dalle tasche dei Paesi industrializzati, considerati tra i principali responsabili del disastro planetario cui stiamo assistendo, per finire in quelle dei Paesi in via di sviluppo. Il grande accordo globale vede la luce a Durban, in Sudafrica, durante l’ultima conferenza del dicembre 2011. È il passaggio che dovrebbe rendere efficace dal 2020 in poi una vera collaborazione tra i principali inquinatori globali, come la Cina (prima come emissioni aggregate, seconda agli Stati Uniti per quelle procapite), gli Usa appunto (oltre 17 tonnellate di CO2 a testa all’anno), l’India, il Brasile e la stessa Unione Europea.
Si parla di un reale contributo alla lotta al cambiamento climatico, quindi di stanziamenti economici, anche cospicui, che in un momento di crisi economica e finanziaria nessuno sembra voglia farsene carico. Un rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia, calcolava in 37mila miliardi di dollari le risorse necessarie entro il 2030 per diminuire le emissioni, evitando così di superare pericolosi punti di non ritorno.
“Continuare con le tendenze correnti di utilizzo dell’energia -ricordava Nobuo Tanaka, l’allora direttore esecutivo dell’Agenzia- mette il mondo su un percorso che potrebbe portare a un aumento della temperatura fino a 6°C, mettendo in serio pericolo la sicurezza energetica globale”.
E la stabilità stessa di ecosistemi e comunità umane, aggiungiamo noi. Un rischio ancora presente, se si pensa che la comunità internazionale ha posto nei 2°C di aumento della temperatura media globale il confine da non superare, per evitare conseguenze disastrose. Un limite che corrisponde ad una concentrazione di CO2 in atmosfera di circa 450 parti per milione, e che è dietro l’angolo, considerando che le ultime rilevazioni dell’Osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii, mostrano il superamento nell’ottobre 2012 delle 392 parti per milione.
Una sfida che richiederebbe una grande ambizione e capacità di leadership, ma che di fatto a prodotto molta retorica e poco realismo.
Per rispondere a tutto questo, la Conferenza di Doha si conclude con il lancio del “Doha climate gateway”, un accordo che salva la struttura e il percorso negoziale, ma di fatto lo svuota di significato.
Kyoto 2 ha visto la luce come da copione dal 1° gennaio di quest’anno, ma partecipato da Paesi che assommano sì e no al 15% delle emissioni totali tra cui l’Unione Europea, l’Australia, la Norvegia e la Svizzera, tutti interessati ad un Protocollo ancora in vita per i meccanismi flessibili che promuove (leggi i mercati di scambio dei permessi di emissione, i cosiddetti “mercati del carbonio”), e non certo per gli obblighi di mitigazione che pone. Visto che, oltretutto, questi ultimi non sono stati fissati in modo certo e inequivocabile.
Gli Stati Uniti risottolineano la loro indisponibilità a sottostare a accordi multilaterali. Ma anche il Canada, a causa delle sabbie bituminose dell’Alberta e del loro potenziale sfruttamento, e la Russia, per lo sviluppo di gas e carbone, hanno definitivamente voltato le spalle a Kyoto.
Tutti guardano al grande accordo globale, chiamato anche Durban Platform, che si dovrà concludere nel 2015 e dovrà entrare in vigore nel 2020, mettendo tutti i grandi inquinatori attorno ad un tavolo, ma in un regime profondamente modificato: non più un sistema vincolante, come Kyoto, con obblighi da rispettare, ma un approccio volontario in cui ogni Paese fissa i propri obiettivi e dopo, solo dopo, li verifica con gli altri. È l’approccio che in gergo viene definito “pledge-and-review”, che si potrebbe tradurre in “impegnati e verifica” ma che lascia ampio margine di discrezionalità ai Paesi e che mette in discussione alla radice, come ha sottolineato il capodelegazione statunitense Todd Stern in un recente intervento, i principi stessi della Convenzione Quadro Onu, che si basano sul principio di “responsabilità storica e differenziata”, cioè chi più ha inquinato nel corso del tempo più deve pagare.
Ma se chi deve pagare è in crisi economica, se non in recessione, allora anche il terzo pilastro dell’accordo diventa un nulla di fatto: le uniche promesse fatte sul Green Fund raggiungono a malapena gli otto miliardi di dollari, tutti messi sul piatto da Paesi europei come la Gran Bretagna, la Germania o i Paesi scandinavi. Niente da fare da parte di altri attori di primo piano come gli Stati Uniti, che ritengono controproducente un sistema di verifica sui versamenti al Fondo, nonostante l’amministrazione Obama, dopo gli oltre 80 miliardi di dollari di danni dovuti al tornado Sandy, abbia ben chiara l’importanza di tali stanziamenti.
Si chiudono i riflettori sul Qatar, tra i principali esportatori di gas naturale e paradossale sede di una conferenza sul clima, in attesa della prossima COP 2013 che si terrà in Polonia, altro Paese particolarmente ostile ai negoziati climatici per via dei suoi piani di sviluppo legati al carbone. Un percorso negoziale che sembra non vedere la fine, ma che si dimostra ininfluente per le sorti del pianeta.
Poco prima dell’apertura della Conferenza di Doha, l’Unep, il programma ambientale dell’Onu, aveva ricordato alle delegazioni in partenza che esiste un “gap” tra la tendenza attuale di crescita delle emissioni (58 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente entro il 2020) e quello che si dovrebbe avere per mantenere la temperatura al di sotto dei 2°C (44 miliardi di tonnellate entro i prossimi otto anni). Il “Doha climate gateway” non affronta nulla di tutto questo, ma nei fatti lo rimanda ad un confronto futuro, in attesa del prossimo evento estremo capace di mettere sotto i riflettori dei media mondiali il disastro di un clima che cambia.

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