Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Economia / Opinioni

La strategia italiana sul gas insegue pericolosamente l’emergenza

Accrescere l’importazione di gas liquefatto è una scelta incompatibile con la transizione ecologica. Al di là della questione dei rigassificatori e della carenza di navi gasiere, pesa soprattutto la questione del prezzo, ancora più opaco e speculativo di quello dei gasdotti. L’analisi di Alessandro Volpi

© Sugarman Joe - Unsplash

La strategia italiana in materia di gas sembra davvero inseguire pericolosamente l’emergenza. A febbraio di quest’anno l’Italia ha pagato alla Russia la cifra record di due miliardi di euro per l’importazione di gas e petrolio, circa tre volte di più di quanto aveva versato nello stesso mese dell’anno precedente, peraltro a fronte di una fornitura inferiore in termini quantitativi. 

È significativo rilevare anche che il prezzo “reale” del gas russo sarebbe di 10-20 euro a Megawattora ma diventa, in termini generali, per gli operatori cinque-sei volte più alto per effetto del prezzo speculativo stabilito dall’hub di Amsterdam. Intanto la stampa italiana continua a parlare di possibile default russo e del probabile esaurimento delle riserve della Banca centrale russa. In quest’ottica, sembra che il governo Draghi intenda prepararsi a sostituire una parte del gas russo comprando gas naturale liquefatto in giro per il mondo. 

Attualmente il gas naturale liquefatto copre poco meno del 20% del fabbisogno di gas italiano che proviene dunque in larghissima maggioranza dai gasdotti. Accrescere l’importazione del gas liquefatto presenta però innumerevoli criticità. Al di là del tema dei rigassificatori e di altre complicazioni logistiche, tra cui un posto centrale ha la carenza di navi gasiere, pesa la questione del prezzo che non solo è più alto di quello del gas trasportato dai gasdotti, ma è ancora più opaco e speculativo, come ha rilevato Stefano Besseghini, il presidente dell’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente. 

Non esiste, infatti, alcuna trasparenza nella determinazione di tale prezzo che avviene sia attraverso l’Henry hub americano sia attraverso la piazza di Amsterdam, dove i contratti sul gas liquefatto sono vere e proprie scommesse su forniture ancora più incerte di quelle dei gasdotti. Peraltro, sulla natura speculativa del prezzo del gas liquefatto incidono due altri fattori, costituiti dalla feroce concorrenza che si fanno i compratori, a partire dalla fornitura fino alla disponibilità di mezzi di trasporto, e dalla prevalenza di contratti a breve-medio termine, certamente più volatili degli approvvigionamenti attraverso i gasdotti. 

In questo senso la scelta italiana di ricorrere al gas liquefatto genererà, come accennato, prezzi decisamente più alti, con significative conseguenze sulle tariffe, e incertezze sulle forniture che non potranno essere garantite in maniera sicura neppure dagli accordi commerciali tra le grandi compagnie. È altrettanto evidente alla luce di ciò che immaginare un tetto al prezzo del gas diventa assai più complesso nel momento in cui si accresce la dipendenza dal gas liquefatto perché il mercato di tale gas è abituato a prezzi più alti e le forniture sono decisamente meno rigide rispetto a quelle vincolate ai gasdotti. 

Sostituire la Russia è davvero complesso, e non solo per il tempo necessario a operare la sostituzione energetica. Nel frattempo, l’economia reale dell’energia pare non preoccuparsi troppo del conflitto. Dall’Ucraina transitano due gasdotti che partono dalla Russia e riforniscono l’Europa; hanno due denominazioni che suonano ora stridenti, Soyuz e Fratellanza. Non sono mai stati interrotti durante la guerra e l’Ucraina, attraverso la sua compagnia di Stato, Naftogaz, continua regolarmente a incassare le royalties per questo passaggio che le vengono versate dalla Russia in euro e in dollari per circa un miliardo di euro. 

Al tempo stesso l’Ucraina continua a comprare gas da Gazprom, pari a un decimo del fabbisogno nazionale. Anche Oltreoceano, l’economia non sembra temere il conflitto, anzi. Dal 18 aprile, l’Amministrazione Biden ha messo all’asta le licenze per le esplorazioni petrolifere su una superficie di 586 chilometri quadrati di territorio federale. È stato deciso anche un aumento delle royalties che le società aggiudicatarie dovranno pagare al governo, destinate a passare dal 12,5 al 18,7%. Si tratta di un chiaro cambiamento di rotta rispetto alle promesse fatte dallo stesso Biden in campagna elettorale, quando puntava al voto ambientalista. Ora, tuttavia, proprio la guerra in Ucraina sembra aver cambiato le cose rispetto ai tempi dello scontro con Trump. Negli Stati Uniti ci sono 970mila chilometri quadrati di territorio destinati alla ricerca di gas e petrolio, di cui il 10% di proprietà federale. Fino all’esplosione del conflitto, circa la metà di questo sterminato territorio non era pienamente utilizzata perché il costo della coltivazione era troppo alto, con perdite pesanti per l’economia e il bilancio federale. La speculazione scatenata dalla guerra in Ucraina ha rapidamente fatto impennare il prezzo del petrolio sopra i 100 dollari e il gas oltre i 150 euro a Megawattora, rendendo subito “conveniente” lo sfruttamento di tutti i 970mila chilometri quadrati a disposizione. In estrema sintesi, la guerra ha trasformato Biden in un “energy man” e ha reso gli Stati Uniti un eldorado per la coltivazione di shale gas e l’estrazione del petrolio. Per un Paese che ha un’inflazione verso il 10% si tratta di una vera e propria panacea.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

https://altreconomia.it/dona/

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.