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Economia

La storia sott’acqua – Ae 94

Sta per vedere la luce il controverso progetto di una diga nel Kurdistan turco. L’invaso sommergerà una citta vecchia di 12mila anni: 55mila persone verranno sfollate ed è a rischio la stabilità dell’area, al confine tra Siria e Iraq. Tra…

Tratto da Altreconomia 94 — Maggio 2008

Sta per vedere la luce il controverso progetto di una diga nel Kurdistan turco. L’invaso sommergerà una citta vecchia di 12mila anni: 55mila persone verranno sfollate ed è a rischio la stabilità dell’area, al confine tra Siria e Iraq. Tra i finanziatori c’è Unicredit


Dodici millenni di storia cancellati da una diga. Se venisse realizzato l’invaso di Ilisu, sul tratto di Tigri che attraversa il Kurdistan turco, oltre alle rovine di Hasankeyf è a rischio l’equilibrio geopolitico del Medio-Oriente. La diga, infatti, ridurrebbe la portata del Tigri, che dopo la Turchia attraversa Siria e Iraq. Anche per questo Ilisu è uno fra i progetti più controversi e travagliati degli ultimi dieci anni. Tanto che alla fine del 2001 sembrava morto e sepolto, travolto dai dubbi e dalle polemiche che indussero le agenzie di credito all’esportazione di Italia (la Sace) e Regno Unito (Ecud) a ritirare il loro appoggio politico e finanziario a un’opera dai molteplici impatti negativi. Le zone d’ombra erano tali e tante che indussero subito la Banca mondiale a rinunciare a qualsiasi implicazione nel progetto. Senza l’appoggio di questi enti statali e della World Bank il consorzio costruttore, di cui faceva parte anche l’italiana Impregiolo, cessò rapidamente di esistere.

Lo scorso anno, però, Ilisu è ricomparso fra le priorità di Ankara. Non a caso: l’opera rappresenta l’elemento principale del turley sospettarne Anatolia Project (Gap), il sistema di gestione delle acque della regione Sud-orientale del Paese i cui lavori sono iniziati (addirittura) all’inizio degli anni Settanta. Il Gap da sempre una valenza anche politica oltre che economica, poiché sorge in pieno territorio kurdo.        

Le agenzie di credito all’export di Austria, Germania e Svizzera hanno deciso di sostenere il manipolo di imprese interessate alle laute ricompense che il governo turco riconoscerà per la realizzazione della diga. L’inizio dei lavori è previsto per ottobre 2008, mentre i costi totali sono stimati in un miliardo e 800 milioni di dollari. Come sempre accade per questo tipo di progetti, è forte anche il coinvolgimento di un gruppo di banche private, pronte a erogare prestiti di milioni di euro.

Nella lista di istituti di credito spicca la Austria Bank Creditanstalt, controllata dall’italiana Unicredit.

Proprio l’Unicredit è attualmente oggetto di una campagna da parte di una serie di organizzazioni, tra cui il coordinamento AcquaSuAv (www.acquasuav.org), affinché “ritiri” il finanziamento previsto, di 280 milioni di euro.

Gli impatti del progetto restano quelli denunciati negli scorsi anni dalle comunità locali e dalle Ong internazionali, e non riguardano solo la regione dove sorgerà il mega impianto idroelettrico, ma anche Iraq e Siria.

Il mega sbarramento, che nascerà a soli 65 chilometri dai confini turchi, finirà per ridurre in maniera sensibile i flussi idrici del fiume. Un’eventualità che non servirà certo a dipanare l’intricata

e annosa questione delle acque transfrontaliere di Tigri ed Eufrate, per le quali Turchia, Iraq e Siria stanno per intavolare un negoziato formale che si preannuncia lungo e difficile. L’oro blu rischia di essere uno dei motivi principali di future crisi politiche e di possibili conflitti, in una regione già “calda” e di fondamentale importanza geo-politica. La lista delle conseguenze negative del progetto, però, è ancora più lunga: la città di Hasankeyf e centinaia di altri beni culturali nella valle del Tigri verrebbero sommersi e quindi perduti per sempre. Altra nota dolente, molto dolente, è l’impatto sulle popolazioni locali. Oltre 55mila persone, secondo la stima più conservativa, saranno costrette ad abbandonare le proprie abitazioni.

In realtà alcuni villaggi sono già stati sfollati, usando maniere a dir poco spicce, come ha potuto appurare di persona Christine Eberlein, della Ong svizzera Berne Declaration, durante una missione sul campo tenutasi a fine 2007. La Eberlein è riuscita a raccogliere numerose testimonianze di famiglie cacciate dalle loro case a fronte di compensazioni irrisorie e inique e violando gli accordi presi tra le tre agenzie di credito all’osservazione coinvolte nel progetto e le autorità turche. Secondo Yilmaz Orkan, presidente del Centro culturale Ararat di Roma, “gli espropri sono eseguiti sulla base della legge Turca sulle emergenze, quindi al di fuori del quadro legale previsto dalle linee guida internazionali,  senza possibilità di verifica dell’effettiva erogazione del compenso previsto né della sua adeguatezza”. I gruppi kurdi sparsi per l’Europa si sono di nuovo mobilitati in massa, specialmente in occasione del Newroz (il capodanno kurdo che si festeggia il 21 marzo), nel tentativo di fermare ancora una volta la costruzione della diga di Ilisu. Gli ultimi sviluppi della questione lasciano intravedere qualche speranza di sopravvivenza per l’immenso patrimonio culturale di Hasankeyf.

Le agenzie di credito all’export interessate alla costruzione di Ilisu hanno imposto al governo turco ben 153 criteri da seguire per la realizzazione del progetto. Secondo un’inchiesta indipendente, commissionata dai tre Paesi finanziatori dopo l’insistente pressione di numerose organizzazioni della società civile, sarebbe stato fatto ben poco per mitigare i pesanti impatti ambientali derivanti dalla costruzione della diga.

A fine marzo i giornali tedeschi hanno riportato un’indiscrezione: il governo di Angela Merkel si starebbe adoperando per far ritirare la garanzia da parte della propria agenzia di credito all’export (100 milioni di euro in totale). In Austria, intanto, si fanno insistenti le voci sui dubbi che iniziano a serpeggiare fra i dipendenti della Austria Bank Creditanstalt.

Qualora la storia si dovesse ripetere e, come già nel 2001, per la diga di Ilisu dovessero venire a mancare i finanziatori “istituzionali”, la Turchia potrebbe finalmente decidere di abbandonare il progetto per sempre. Il risultato sarebbe la scomparsa di un ulteriore elemento di tensione in uno spicchio di mondo già fin troppo turbolento.



Ilisu, una diga nell’antica Mesopotamia

Hasankeyf è stata una capitale degli antichi regni dell’Anatolia e un magnifico esempio di pacifica convivenza tra religioni diverse. La città, come la maggior parte dei luoghi che subiranno l’impatto negativo dal progetto, è culturalmente importante per l’etnia kurda, stanziata nella regione Sud-orientale della Turchia. Proprio ad Hasankeyf, 12.000 anni fa, si stabilirono i primi insediamenti dell’antica Mesopotamia. Vista la posizione strategica sul fiume Tigri, nel corso dei secoli si sono susseguite diverse civiltà nel controllo della città. Le caverne scavate nelle pareti di roccia che costeggiano il fiume furono abitate fino agli anni 60, quando le autorità le evacuarono con la forza in previsione dei futuri progetti di dighe. Queste abitazioni sarebbero spazzate via dall’acqua come gran parte dei monumenti della città. Tra questi chiese, moschee, tombe islamiche -ad Hasankeyf è sepolto il sultano Suleymano, discendente diretto di Maometto e profondamente venerato in tutto il Paese-.



Il rischio d’impresa lo assicura lo stato

Quando un’impresa investe all’estero, in particolare per operazioni di lungo periodo, deve considerare il rischio che la controparte nel Paese dove si realizza l’investimento non paghi, per motivi commerciali, politici, o per qualunque altra ragione.

Poiché per una singola impresa è difficile, se non impossibile, citare in giudizio uno Stato straniero, tutti i Paesi industrializzati, inclusa l’Italia, hanno da qualche tempo creato delle agenzie di credito ed assicurazione, pubbliche o private, ma sempre sotto forte controllo statale, al fine di sostenere gli esportatori coprendone i rischi.

Nel caso dell’italiana Sace il mandato è quello di assicurare le imprese italiane che investono all’estero, e garantire i loro investimenti nel caso che il Paese straniero non rispetti i suoi impegni.

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