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Diritti / Attualità

La solitudine delle donne nelle carceri italiane pensate al maschile

© Denis Oliveira, unsplash

Nei penitenziari italiani le donne sono 2.392, circa il 4% del totale della popolazione carceraria. Hanno un livello di istruzione medio-basso e circa un terzo sono di origine straniera. Questo lo spaccato che emerge dal primo rapporto a loro dedicato dall’associazione Antigone e presentato in occasione dell’8 marzo

Nella sezione femminile della casa circondariale di Como “non c’è la possibilità di usufruire del teatro, non c’è la possibilità di fare corsi di musica visto che gli strumenti sono solo al (settore, ndr) maschile”. Anche l’area educativa è presente solo nella sezione maschile con la conseguenza che “le detenute sono prive di educatori stabili, non vengono redatte osservazioni e sintesi, precludendo l’accesso alle misure alternative”. Nel carcere di Messina “i passeggi sono di pochissimi metri, non si può camminare non c’è spazio”, racconta una detenuta che denuncia le pessime condizioni della sua cella. Sono solo alcune delle testimonianze raccolte dall’associazione Antigone che, in occasione della giornata internazionale per i diritti della donna dell’8 marzo, ha pubblicato il primo rapporto sulle donne ristrette nel nostro Paese.

Il primo elemento che emerge è il peso ridotto della componente femminile sulla popolazione carceraria: al 31 gennaio 2023 le detenute erano 2.392 (il 4,2% del totale) tra cui 15 madri con 17 figli al seguito. Circa un quarto (599) si trovano all’interno delle quattro carceri femminili presenti sul territorio -Trani (BT), Pozzuoli (NA), Venezia e Rebibbia che con i suoi 275 posti è l’istituto femminile più grande d’Europa-, mentre la quota restante è sparsa nelle 44 sezioni dedicate all’interno di strutture maschili, con un panorama estremamente variegato. Si va infatti dalle 114 presenze nella sezione femminile del carcere milanese di Bollate o le 117 di Torino alle cinque di Mantova, alle quattro di Paliano (FR) alle due di Barcellona Pozzo di Gotto (ME).

Il fatto che in molti istituti il numero delle donne ristrette sia estremamente basso ha ricadute negative sulla loro vita dal momento che le attività trattamentali (dallo sport alla formazione all’inserimento lavorativo) vengono rivolte prevalentemente verso il gruppo più numeroso, ovvero quello maschile. Proprio per evitare questa marginalizzazione, l’ordinamento penitenziario in vigore dal 2018 prevede esplicitamente che il numero di donne ristrette in carceri maschili debbano essere “in un numero tale da non compromettere le attività trattamentali”. Scarseggiano anche le attività in comune con gli uomini: solo il 10% degli istituti che ospitano donne li prevedono: nel carcere di Bollate e a Sollicciano, ad esempio, è prevista la partecipazione mista ad alcuni momenti formativi. Mentre a Bergamo e Forlì un corso di teatro è aperto a entrambi i sessi.

Per quanto riguarda i percorsi di istruzione, i dati disponibili (aggiornati al 31 dicembre 2021) dicono che su 1.515 donne per cui è stato rilevato il titolo di studio quasi la metà (667) è in possesso solo della licenza di scuola media inferiore, 39 è priva di alcun titolo di studio e 108 sono analfabete. Per contro, le laureate sono appena 59. Durante l’anno scolastico 2021-2022 sono state 835 le detenute che hanno ripreso gli studi, ma solo 334 hanno ottenuto la promozione “Segno di un grande problema nella capacità di garantire una solida formazione scolastica in carcere”, si legge nel rapporto, che evidenzia come le donne “tendono a frequentare corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana e gli altri corsi di primo livello, accedendo in misura inferiore a quelli di secondo livello”. Uno sguardo ai dati sugli studi universitari conferma questa considerazione: su un totale di 1.093 iscritti a una facoltà universitaria a fine 2022 le donne sono solo 36.

Le informazioni contenute nel dossier di Antigone permettono poi di scattare anche un’istantanea sulla popolazione femminile ristretta. Le donne detenute hanno un’età media più elevata rispetto agli uomini (sono presenti ben 31 over 70 e solo nove giovani di età compresa tra i 18 e i 20 anni), vengono condannate soprattutto per reati contro il patrimonio (che pesano per il 29,2%) e in larga parte devono scontare una pena inferiore ai sette anni di detenzione. Solo una settantina ha sulle spalle una condanna a più di vent’anni. Le detenute sottoposte a regime di 41 bis sono 12 (tutte ristrette presso l’istituto penitenziario de L’Aquila), otto sono quelle in regime di alta sicurezza 2 (terrorismo) e 218 quelle in alta sicurezza 3 (organizzazioni criminali di stampo mafioso): “Circa il 10% delle detenute si trova in regime di alta sicurezza. Nel caso degli uomini la percentuale sale al 16,8% -si legge nel rapporto- Segno di un profilo criminale più alto”. Circa tre detenute su dieci sono di origine straniera (un dato in calo rispetto al 2013, quando pesavano per il 40% sul totale): quella romena e quella nigeriana sono le nazionalità più rappresentate.

All’interno di quadro già particolarmente complesso come quello dell’accesso alla salute in carcere, le donne vivono un’ulteriore difficoltà legata alla mancanza di servizi specifici a loro dedicati. Solo nel 66% degli istituti che hanno una sezione femminile, ad esempio, è presente un servizio di ginecologia: “Negli altri, tra i quali ci sono strutture importanti come San Vittore, con 79 donne presenti, e il Pagliarelli di Palermo (66) si chiama lo specialista quando necessario o ci si reca all’esterno”, si legge nel rapporto. Mentre il servizio di ostetricia è presente solo nel 31,8% degli istituti. Antigone evidenzia anche come il malessere psichico sia particolarmente diffuso all’interno delle carceri e delle sezioni femminili italiane. Una sofferenza che emerge sia dagli atti di autolesionismo censiti dall’amministrazione penitenziaria (30,8 ogni 100 presenti, contro i 15 degli istituti che ospitano solo uomini) sia dalle prescrizioni di psicofarmaci (li assume regolarmente il 63,8% delle presenti contro il 41,6% del totale). Mentre le donne con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4%; tra gli uomini l’incidenza è del 9,2%.

Un aspetto delicato della detenzione al femminile è la presenza di 15 detenute-madri costrette a crescere in carcere i propri figli (17). La maggior parte si trovano all’interno di tre istituti a custodia attenuata (Icam) negli istituti di Lauro (CE), Milano e Venezia.

“Il nostro sistema penitenziario è declinato, nelle norme e nell’organizzazione istituzionale, al maschile. Non vi è una specifica attenzione rivolta alle donne detenute nelle leggi, nei regolamenti e nel management penitenziario”, segnala Antigone nelle conclusioni del suo rapporto in cui presenta anche dieci proposte per modificare questa situazione e garantire il rispetto dei diritti delle donne detenute. Tra le altre cose, l’associazione chiede l’istituzione di un ufficio dedicato all’interno del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) e l’avvio di “azioni positive volte a rimuovere gli ostacoli che le donne incontrano nell’accesso al lavoro, all’istruzione e alla formazione professionale”. Si chiede poi una maggiore attenzione alle esigenze specifiche di questa fascia di popolazione a partire da “un servizio di prevenzione e screening dei tumori femminili equivalente a quello delle donne in libertà”, la fornitura gratuita di assorbenti femminili, la presenza di staff adeguatamente formato e specializzato sulla violenza di genere.

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