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Intervista

La situazione analoga

La cognizione umana -a qualsiasi livello- si fonda su meccanismi basati sull’analogia. Una “lotta” tra pensieri cui il saggista Douglas Hofstadter, premio Pulitzer 1980, ha dedicato la propria ricerca: “Mi è venuta in mente la parola ‘bagagliaio’ invece di ‘cestino’ perché mi sembrava giusta. Era sbagliata, ma il fatto che sia stato uno sbaglio non importa”

 

Tratto da Altreconomia 180 — Marzo 2016

"Ogni parola viene scelta tramite un tipo di analogia. Si guarda la situazione in cui ci si trova e ci si chiede quale sia l’essenza della situazione stessa; isolandone il senso si prova a mettere il dito su quello che conta e quello che non conta. L’analogia è al centro della cognizione umana”. Douglas Hofstadter insegna Informatica e Scienza cognitiva al dipartimento di Psicologia dell’Università dell’Indiana. 

Nel 1979, a 34 anni, pubblica il saggio “Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante”, libro-culto che gli vale nel 1980 il premio Pulitzer e il National Book Award. Nel corso degli ultimi decenni dedica gran parte della sua ricerca a studiare i meccanismi e i processi del pensiero umano. Il suo ultimo libro, scritto con lo psicologo francese Emmanuel Sander, è “Superfici ed essenze. L’analogia come cuore pulsante del pensiero” (Codice Edizioni). L’intervista è stata condotta in italiano, lingua che Hofstadter conosce molte bene.


Le analogie sono al centro dei nostri pensieri più complessi -come quelli più astratti o le scoperte scientifiche- oppure anche dei nostri pensieri di tutti i giorni? 

DH Una sera sono andato con i miei figli in pizzeria. Abbiamo mangiato parte di una pizza e non l’abbiamo finita. Così abbiamo deciso di portarla a casa. Uscendo dalla pizzeria ho detto ai miei figli, che erano a piedi, mentre io in bici: “La metto nel bagagliaio”. Ho detto ‘bagagliaio’ perché la mia bici ha un cestino che non  si trova davanti, ma dietro la sella, e non è rotondo. Non ha certamente una forma strana, ma ha una forma che mi fa pensare al bagagliaio di una macchina. Lo scopo del cestino è quello di portare delle cose e si trova dietro il ciclista. Mi è venuta in mente la parola “bagagliaio” invece di “cestino” perché mi sembrava giusta. Era sbagliata, ma il fatto che sia stato uno sbaglio non importa. Quel che importa è che ho trovato questa parola per analogia, cioè mi ha fatto pensare a una cosa analoga. Quando parliamo facciamo due o tre scelte di parola ogni secondo, il che vuol dire che facciamo due o tre analogie al secondo. Poiché facciamo anche un sacco di altre cose mentre stiamo parlando -pensiamo a parole alternative, cerchiamo costruzioni grammaticali che pure vengono scelte per analogia, ci  guardiamo attorno, identificando le cose che vediamo- in ogni secondo facciamo un numero piuttosto alto di analogie, incessantemente. In questo senso, l’analogia è proprio il cuore del pensiero. Di tutti i pensieri, anche quelli più complessi: i pensieri esistono a tutte le scale di importanza, ma i meccanismi dell’invenzione di un pensiero molto importante non sono diversi dai meccanismi con cui produciamo i pensieri di tutti i giorni, i pensieri quotidiani.


In che modo un’analogia permette di compiere scelte?

DH L’idea stessa di prendere decisioni è un po’ dubbia, nel senso che dà l’impressione che esista una sorta di libero arbitrio. Se mi trovo davanti a un negozio dove vendono patatine e mi chiedo se ne voglio un pacchetto, alla fine compro o non compro. La risposta è sì o no. Ci sono due forze opposte nella mia testa. Una dice “mi piacerebbe mangiare quelle patatine perché ho fame o forse non ho fame, ma il gusto mi piace” e poi l’altra forza, contraria, che dice “non voglio prendere peso”. C’è un tipo di lotta, di lite, tra queste due forze -probabilmente è “lotta” la parola che voglio: ecco, ho preso una decisione tra “lotta” e “lite”- attive nella mia testa e combattono l’una contro l’altra. Ci sono diverse cose che contano, come il livello della mia fame, il mio peso in quel determinato giorno. Tutto ciò ha che vedere con il modo in cui percepisco la situazione. Devo categorizzare il mio peso -è grande o piccolo?- devo categorizzare il grado della mia fame, devo decidere quanto mi importa il gusto delle patatine, etc. Tutte queste forze lottano nella mia testa e il vincitore della lotta non prende la decisione, ma costituisce la decisione. Non abbiamo un libero arbitrio: è il modo in cui percepiamo una situazione che attiva certe forze nella nostra testa e le forze lottano e infine decidono chi nella lotta vince. Ed ecco la decisione è presa. 


La nostra capacità di autopercezione influenza la comprensione che abbiamo degli altri?

DH In inglese userei la parola mapping, ovvero corrispondenza, proiezione. Per capire le altre persone, ci mettiamo al loro posto mentre ci parlano, mentre le guardiamo, mentre proviamo a capire i loro motivi, desideri. Vale per le persone ma anche per gli animali. Esiste una tendenza, una spinta verso il fare analogie tra me e l’altra persona per provare a capire cosa mi dice, come si comporta. A volte non riesco a mettermi al posto di un’altra persona. Ad esempio, quando guardo i candidati Repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti, mi dico “io veramente non capisco per niente queste persone, non riesco a fare una corrispondenza, la distanza tra me e queste altre persone è così grande che non ci riesco”. Però, con i miei amici, i miei figli, con le persone che a me sono care riesco quasi sempre, anche se non sono d’accordo con quello che dicono. L’analogia in questo senso mi permette di identificarmi con gli altri, di capire perché fanno o dicono quel che fanno o dicono. Io divento un po’ l’altra persona, l’altra persona diventa un po’ me.


La comprensione dell’altro può spingere verso una società e un’economia più eque?

DH Sono piuttosto pessimista in merito. È concepibile, in teoria, che nelle scuole elementari si insegni ai bambini a fare analogie con gli altri. Si potrebbe mettere l’enfasi su quella che in inglese chiamiamo la golden rule, cioè la regola secondo cui dobbiamo trattare le altre persone come vorremmo essere trattati noi stessi dagli altri. Tuttavia, in genere le scuole non si concentrano sull’etica o sulla moralità. In genere, dopo l’età di sei o sette anni, almeno negli Stati Uniti, non so in Italia, l’enfasi è sui fatti, sulle tecniche e sui metodi per fare le cose. Non si parla più di come si devono trattare gli altri. È un argomento che viene lasciato ai genitori e alle famiglie, e indirettamente alle interazioni sociali, come quelle con gli amici. L’empatia è la tendenza a proiettarsi sulle altre persone, a vedere se stessi negli altri e viceversa. C’è un’apertura molto grande da parte di certe persone o un’apertura molto ridotta da parte di altre. Questa differenza tra tipi di personalità non è facilmente modificabile con l’educazione o attraverso altri fattori sociali e culturali. Se io fossi nato e cresciuto in una società in cui i miei genitori e tutte le persone che conoscevo si dedicavano costantemente al furto, probabilmente sarei finito a fare la stessa cosa. I modelli che abbiamo davanti ci creano. In questo senso è la società in cui siamo nati che ci determina. C’è anche un parte innata, per cui sono pessimista, perché è immodificabile. Per la parte che ha a che vedere con la società, una società più benevola condurrebbe a un’empatia sociale maggiore. 


La percezione estetica può determinare anche un avanzamento nella nostra cultura e creare società e sistemi economici più inclusivi?

DH Forse possiamo incoraggiare la percezione della bellezza, ma nelle nostre scuole, negli Stati Uniti, la musica e l’arte sono state in gran parte eliminate. Ovviamente è sempre possibile seguire un corso di musica o di arte quando si è al liceo, ma non viene imposto a tutti gli allievi. Lo si fa solo per scelta. E la maggior parte delle persone non sceglie questo genere di cose, perché siamo in questa epoca storica più orientati verso il denaro o le questioni economiche, non verso le cose estetiche. Le persone non imparano a suonare strumenti musicali, non imparano a disegnare, a fare sculture. Tutto è determinato da scopi economici, o almeno c’è una forte tendenza in tale direzione. Io credo che l’estetica svolga un ruolo sempre più ridotto nella cultura attuale. Non so perché. Se si potesse rovesciare questa tendenza, è concepibile che la gente apprezzerebbe la bellezza delle cose che hanno meno a che fare con l’economia e con il denaro e forse si orienterebbe verso cose più spirituali.
Sarebbe bello, anche se non è detto che ciò porterebbe verso una società più gentile, più mite, più inclusiva. Mi piace pensarlo, ma non ne sono sicuro. 


* Francesco Bianchini è ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna. Si occupa di filosofia della scienza, scienze cognitive e intelligenza artificiale

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