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Esteri

La scommessa cinese

Gli imprenditori italiani volano ad Est, mentre le merci navigano lungo la rotta opposta. E il nostro Paese è l’unico a tenere in vita l’area dell’Expo 2010, a Shanghai

Tratto da Altreconomia 142 — Ottobre 2012

Alberto Colosio, imprenditore della provincia di Cremona, nell’ultimo anno ha percorso la tratta Malpensa-Pechino una decina di volte. Due anni fa l’azienda di cui è socio al 25%, Exa, che vende macchine per la produzione di guarnizioni industriali, ha iniziato a rappresentare in Europa la Windo, ditta di Tianjin (20 chilometri da Pechino) che realizza macchine per la serigrafia del vetro. Alberto è diventato così uno dei tanti pendolari dell’economia globale: uomini e donne che, nel secondo decennio del ventunesimo secolo, viaggiano sempre più verso la Cina. “Il rapporto tra la mia società e l’azienda cinese sta dando ottimi risultati -spiega Colosio-. Exa assicura ai clienti europei l’assistenza ai macchinari e ha aiutato Windo a raggiungere standard di produzione da marchio Ce. Negli ultimi mesi abbiamo concluso un grosso ordine per l’Agc, una multinazionale del settore che ha avuto fiducia in noi e nell’azienda cinese. Rispetto ai competitor tedeschi arriverà a risparmiare circa il 25%. Ciò è possibile grazie al basso costo della manodopera: i 130 lavoratori della Windo guadagnano oggi circa 2mila yuan al mese (250 euro), e gli stipendi sono raddoppiati in questi ultimi anni. Tra il 2000 e il 2005 la Cina era attrattiva per i prezzi più bassi, e le nostre imprese producevano in Oriente per riportare il prodotto finito in Occidente. Ma i cinesi non sono stati a guardare: hanno copiato i macchinari e oggi sono loro stessi a far concorrenza. I dirigenti di Agc, che ha sede in Belgio, sono venuti di persona a verificare le linee di produzione della Windo, e sono rimasti soddisfatti”.
Secondo i dati dell’Istituto nazionale per il commercio estero (Ice) le italian company attive in Cina sono più di 2mila: stanno a Beijing (Pechino), in Tianjin, nella regione di Shandong, in Sichuan e a Shanghai, a Jiangsu, a Zhejiang, a Fujian, Anhui e Guandong.
Numeri che vanno letti guardando anche ai valori dell’import-export tra Italia e Cina. Secondo i dati del ministero per lo Sviluppo economico, la Cina è al 19esimo posto nella classifica dei principali Paesi destinatari delle esportazioni italiane, con 2,89 miliardi di euro (il 2,3% del totale), dato registrato tra gennaio e aprile 2012. In termini relativi, è la stessa percentuale del 2009, quando però l’export nei primi quattro mesi dell’anno aveva toccato quota 6,62 miliardi di euro. In termini relativi, il peso della Cina sul totale delle esportazione italiane vi era stato dal 2009 al 2011, passando dal 2,3% al 2,7%. Mentre per quanto riguarda i principali Paesi di provenienza delle importazioni italiane, la Cina si piazza al terzo posto dopo Germania e Francia, anche se il dato è in netta diminuzione rispetto al 2011 (7,3%, 29,3 miliardi di euro): tra gennaio e aprile 2012 si è fermato al 6,3%, ovvero 8.08 miliardi di euro. Per quanto riguarda l’export, il 47,7% è rappresentato da macchinari elettrici e non (nel 2011, secondo l’Ice).
Il dato che misura meglio l’aumento delle relazioni Italia-Cina riguarda però Alberto Colosio e tanti suoi omologhi: dal 2006 al 2011 il numero dei visti rilasciati per affari è passato da 8.905 visti ai 18.185.
Del resto, per comprendere quanto gli italiani siano ormai radicati in Cina basta fare quattro passi nell’elegante Central businnes district, a Pechino: incontro nell’elegante ristorante “Private Kitchen”, Luca Cavallari, un trentenne bolognese che da sette anni vive e lavora come imprenditore in Cina. Ha anche acquistato un appartamento nella grande metropoli, e oggi viaggia tra Italia e Cina per favorire i rapporti tra le imprese italiane e quelle orientali.
Stefano, invece, ha aperto a Shanghai un’agenzia di eventi, e oggi ha più di 15 dipendenti. E se non fossero sufficienti questi due volti, a Pechino potere andare a bere uno spritz da “Aperitivo”, un locale gestito da italiani nel popolare quartiere di Sanlitun, per orecchiare le storie di giovani  uomini d’affari italiani.
Tra le imprese italiane in Cina ci sono anche quattro gruppi bancari: Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi di Siena, Banco Popolare di Verona e Unicredit. La prima ad arrivare è stata, nel  2007, Intesa Sanpaolo, acquistando il 19,99% di Bank of Qingdao. La banca, che ha sede nella regione dello Shandong, ha una rete di 45 filiali e una quota di mercato locale del 6%. Sempre nel 2007 Eurizon Financial Group, società di asset management del gruppo, ha acquisito il 49% di Penghua Fund Management, una delle principali società di asset management del mercato cinese, mentre Eurizon ha acquistato il 19,99% del capitale della compagnia assicurativa cinese, specializzata nel settore vita, Union Life. Intesa Sanpaolo ha inoltre fondato, e investe, nel fondo di private equity Mandarin Capital Partners, focalizzato sulle piccole e medie imprese italiane e cinesi, con programmi di crescita in Cina ed Europa. Anche l’editoria, intanto, guarda con attenzione al Paese dove i bambini in piazza Tienanmen fanno ancora la foto davanti al ritratto di Mao appeso alla Città proibita. Lo scorso 2 settembre si è chiusa a Pechino la Beijing International Book Fair, il principale appuntamento per lo scambio dei diritti d’autore nell’area asiatica, al quale hanno partecipato dieci editori italiani. Continua infatti a crescere la vendita di diritti di libri italiani a case editrici cinesi: dagli 8 titoli del 2001 si è passati ai 142 del 2007 fino ai 447 del 2011.
Intanto nelle edicole italiane si trova, dal gennaio 2001, la rivista Cina in Italia, fondata da Hu Lanbo, una imprenditrice cinese che dopo aver studiato all’Université Paris -Sorbonne, si è sposata con un italiano. Il mensile, edito inizialmente solo in cinese, dall’aprile 2007 è scritto con testo bi-fronte rivolgendosi a lettori bilingue, “in conseguenza del fatto -spiega Lea Vendramel, vice capo redattore- che i rapporti tra Cina e Italia sono diventati sempre più consueti e il numero degli italiani che studiano cinese è aumentato”. Oggi ha una tiratura mensile di 5mila copie.
La rivista, che si avvale della collaborazione dei giornalisti di China News Week, offre pagine di approfondimento culturale ma anche reportage che esaltano “la tolleranza zero nei confronti della corruzione da parte del Comitato centrale del Partito comunista”, elogiano Wang Yang, esponente dell’Ufficio politico del Comitato centrale del Partito comunista e segretario del partito nel Guangdong, oltre a parlare di un sindacato che secondo la rivista “non è un dipendente dell’azienda”.
“Cina in Italia” offre un’immagine del Paese che stona con i volti dei giovani laureati disoccupati, con il livello dei salari ancora tra gli 800 e i 2000 yuan (100-250 euro al mese), con gli orari di lavoro estenuanti (anche 12 ore al giorno) e con la censura che ancora oggi non permette di accedere a Facebook, Twitter e You Tube promuovendo nelle stazioni della metropolitana il social network “fatto in casa”: weibo.com.
La crisi mondiale e i cambiamenti ai vertici del Partito hanno portato a un calo di quasi messo punto della crescita della produzione industriale, che ad agosto -secondo i dati resi noti dall’Ufficio nazionale di statistica- ha toccato l’8,9%, mentre l’incremento del Pil nel secondo trimestre ha toccato il limite più basso degli ultimi tre anni (+ 7,6%).
Per comprendere ciò che sta accadendo in Cina bisogna guardare alle periferie delle metropoli e comprendere la parola yizu, letteralmente il popolo delle formiche. Sono i giovani provenienti dalle zone rurali, arrivati a Pechino o a Shanghai per lavorare e studiare. Vivono in villaggi formicai (jujucun) costruiti da contadini che al posto di coltivare la terra hanno realizzato quartieri satelliti con blocchi di cemento a più piani, affollati da ragazzi che condividono, come formiche, la stessa stanza per risparmiare sull’affitto visto che a fatica lavorano saltuariamente guadagnando 2000 yuan al mese.
Una situazione con la quale il congresso del Partito, che si appresta a tenere il congresso che deciderà, in ottobre, qual è il nuovo gruppo dirigente del Paese, dovrà fare i conti.
“Il popolo delle formiche è il frutto delle riforme degli anni Novanta -spiega Ivan Franceschini, ricercatore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia che da anni vive in Cina-, quando le autorità cinesi decisero di allargare l’accesso all’istruzione universitaria come strumento per stimolare i consumi interni. Il numero dei laureati aumentò a dismisura a fronte di un mercato del lavoro largamente impreparato: nel 1998 erano iscritti all’università 1.080.000 studenti; dieci anni gli universitari erano 17.400.000 e nel 2010 ben 30 milioni”.
Le imprese metalmeccaniche e tessili, anche quelle italiane, presenti nel Guangdong, la regione economicamente più dinamica, non cercano laureati. Qui sono concentrate le industrie di Hong Kong che producono giocattoli, vestiti, orologi, prodotti elettronici e molte aziende del nostro Paese: Magneti Marelli, Piaggio, De Longhi, Urmet, Finmek, Sacmi, Cogne, Zobele Group e Bottero.
Le friggitrici, le lavastoviglie, le stufe elettriche, i frullatori De Longhi, ad esempio, li fanno quelli come Li Jia, che a 17 anni si è trovata durante le vacanze estive in fabbrica, “senza un contratto e con uno stipendio stabilito a voce di 500 yuan”, come ha raccontato ai ricercatori dell’Institute of Contemporary Observation che hanno realizzato un’indagine (pubblicata nel marzo 2011) sulle condizioni di lavoro delle imprese metalmeccaniche italiane con il coordinamento della Fim Cisl.
Alla Piaggio, nata nell’aprile 2004 come joint venture tra il gruppo italiano Piaggio e la Zongshen Industry Group, si lavora a cottimo, e durante la ricerca (2010-2011) alcuni reparti erano organizzati in turni da 12 ore al giorno. “Nella fabbrica -hanno raccontato i lavoratori- non c’è un sindacato o un comitato di lavoratori equivalente”.
L’immagine di un Paese in bilico tra gigantismo e fallimento si ha attraversandolo in treno da Pechino a Shanghai, la capitale economica. Ci si arriva con un treno veloce, una sorta di Freccia Rossa, che percorre 1250 chilometri ad una velocità di 310 km/h, attraversando campagne e sterminate pianure. La destinazione è Expo 2010.
La più costosa (un investimento di 11.964 miliardi di yuan, circa 1,5 miliardi di euro) Esposizione universale della storia portò a Shanghai 73 milioni di persone durante i 184 giorni della manifestazione, il 5,8% dei quali stranieri. Una meravigliosa cartolina come quelle che vendono per le strade, ora deserte, dell’area Expo. Dei mastodontici padiglioni costruiti sui 5,3 chilometri quadrati sul Pudong, ne sono rimasti solo otto. Il resto dei maestosi “monumenti” che hanno ospitato 192 Paesi sono stati smantellati. Nella metropolitana, alla fermata South Yaohua Rd, sulla linea 8, trovi ancora la cartina dipinta sul muro con tutti i padiglioni. Messo il naso fuori, li cerchi ma non li trovi. Balzano all’occhio solo l’Expo Centre e il China Pavillon.
Bisogna percorrere tutto l’Expo Axis, il viale principale dell’esposizione, caratterizzato da una tensostruttura di 65mila metri quadri (anch’essa in via di smantellamento a vedere le gru che ci lavorano attorno) per arrivare al China Pavillon. Mi avevano detto che almeno quello l’avrei trovato aperto ma la sensazione è che questa cattedrale nel deserto urbano di Shanghai sia destinata a essere solo un ricordo nell’album fotografico dei cinesi che si divertono ad immortalarsi davanti ai detriti che restano all’ingresso.
Duecento metri più in là, su un banchetto, trovo una decina di volantini in cinese dello Shanghai Italian Center. Non si capisce dove sia. Provo a cercarlo. Percorro qualche chilometro tra strade deserte. Non passa un auto, né un autobus.  Nessuna indicazione.
Alla fine trovo l’ex padiglione italiano, rinato dal maggio scorso per diventare la vetrina permanente del made in Italy in Cina. L’edificio, costato tra i 12 e 15 milioni di euro, dopo essere stato donato alla municipalità di Shanghai è tornato a “parlare” italiano tanto che all’inaugurazione, il 18 maggio scorso, hanno partecipato il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, il Console generale dell’Italia a Shanghai Vincenzo De Luca e il vice presidente della Ferrari Pietro Ferrari, oltre alle autorità cinesi. Lo Shanghai Italian Center si affaccia su una vera e propria “piazza” italiana, disegnata dall’architetto Gianpaolo Imbrighi (lo stesso che ha progettato il padiglione), cui fanno da cornice i padiglioni del Lussemburgo e dell’Olanda e lo spazio occupato in precedenza dal padiglione inglese. Questi edifici ospitano attività legate alla moda, all’eno-gastronomia, al gusto e allo stile italiano. In particolare, nell’ex padiglione del Lussemburgo, l’istituto Marangoni di Milano ha aperto il primo centro internazionale di formazione dedicato al fashion design a Shanghai ed è stato aperto un ristorante gestito dallo storico ristoratore italiano di Shanghai “Da Marco”.
C’è spazio per un’esposizione di Ferrari e di Bulgari, un club esclusivo e una copia in bronzo del David di Michelangelo. Ma il padiglione italiano rischia, di restare una mosca bianca nel deserto dell’Expo 2010. Tornando verso la metropolitana, mancano i “resti” degli altri padiglioni. Un’anziana donna cerca di vendermi un portachiavi di Haibao, l’onda marina sorridente, mascotte dell’esposizione. “Venti yuan, venti yuan”, insiste. Per un attimo penso all’Expo 2015 (vedi Ae 141): Milano farà la fine di Shanghai? —

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