Ambiente / Intervista
La scienza giovane del ripristino della natura e dei suoi habitat degradati vista dal mare

Roberto Danovaro, ecologo e professore di Restauro degli ecosistemi marini all’Università Politecnica delle Marche, ha scritto il primo saggio in Italia sul restauro ecosistemico. Una pratica centrale nella ricerca scientifica dal momento che il 75% degli habitat terrestri sono danneggiati dall’azione umana. Vale lo stesso per gli ambienti marini: attraverso la reintroduzione della Posidonia è possibile evitare l’erosione costiera e lasciar rifiorire la biodiversità
Roberto Danovaro è ecologo e insegna Restauro degli ecosistemi marini all’Università Politecnica delle Marche. Nella sua vita ha coordinato oltre trenta spedizioni scientifiche internazionali e nell’aprile di quest’anno ha pubblicato per edizioni Ambiente il volume “Restaurare la natura, come affrontare la più grande sfida del secolo. Strategie e tecniche di ripristino degli ecosistemi”. Si tratta del primo libro in Italia su questa disciplina che consiste, come riassume Danovaro, nel “rigenerare le funzionalità di un ambiente che è stato degradato e nel restituire la sua biodiversità, per far sì che possa fornire i servizi ecosistemici”.
“La comunità scientifica ci ricorda infatti che circa il 75% degli ecosistemi terrestri è ormai degradato, cioè ogni ambiente tranne quelli di alta montagna e di elevata latitudine, mentre in quelli marini è più difficile quantificare con esattezza le porzioni di territorio danneggiate -continua-. Per la maggior parte degli oceani si parla più di alterazione dell’ecosistema, ovvero di modifica degli equilibri, delle caratteristiche chimico-fisiche e della biodiversità”. Danovaro stressa l’importanza di implementare questa pratica, in cui si integrano le conoscenze dell’ecologia con quelle delle scienze sociali ed economiche, per affrontare il deterioramento, l’inquinamento e la cementificazione degli habitat. Lo abbiamo intervistato.
Professor Danovaro, come si può articolare un processo di restauro ecosistemico?
RD Il restauro nasce dalla necessità di reintrodurre nell’ambiente quelle specie che plasmano un habitat, come reinserire specifici alberi in un bosco o ripristinare nell’ambiente marino foreste sommerse come quelle della pianta Posidonia oceanica. Si inizia dal rimuovere le cause delle alterazioni ambientali, per esempio l’inquinamento o la contaminazione chimica e poi si reintroducono le specie che formano l’habitat. Queste azioni permettono di attivare un processo che nel tempo recupera la biodiversità e rinaturalizza l’area prendendosi cura del territorio. Quando si effettua un intervento diretto, il restauro si definisce “attivo” e si predilige nei casi in cui i tempi di recupero naturali, la cosiddetta resilienza, sono molto lunghi, a volte anche decenni o secoli. All’opposto il restauro “passivo” consiste nel rimuovere le cause del degrado e proteggere l’ambiente in modo che si possa rigenerare spontaneamente e recuperare le sue condizioni originarie. Il restauro passivo è possibile solo in alcuni casi ma diventa difficile in altri, come negli ambienti marini dove una scogliera corallina o una prateria di Posidonia spesso non sono in grado di recuperare “da sole” una situazione di sofferenza, e serve dunque un restauro attivo, una sorta di “terapia intensiva” mentre quello passivo è più simile alla “riabilitazione di un paziente”.
Il restauro ecologico viene definito nel libro come una scienza giovane, quali sono le maggiori difficoltà di questa pratica?
RD L’ho definita così perché è una scienza di sintesi che si basa sull’acquisizione di moltissime conoscenze, spesso di recente acquisizione, e le mette insieme attraverso varie competenze ecologiche. Il primo step è riconoscere il problema, ovvero che viviamo in un ambiente degradato e che questo ha delle conseguenze sulla nostra salute ed economia. Poi serve essere in possesso degli strumenti aggiornati del restauro ecologico, ovvero i protocolli e i metodi adeguati per intervenire in ogni situazione. Il terzo aspetto importante è quello di conciliare la governance di queste pratiche con la gestione finanziaria e legislativa di ogni intervento, come sta provando a fare l’Unione europea adottando delle misure promosse dalle Nazioni Unite per affrontare il degrado degli habitat. Probabilmente la questione più rilevante è quella economica perché è difficile individuare chi paga per restaurare gli ambienti degradati e anche identificare le responsabilità di un processo che dura anni e ha molteplici ragioni. A livello internazionale si sta lavorando a un meccanismo pubblico di finanziamento tramite l’introduzione dei blue bond, obbligazioni per finanziare la conservazione ambientale, in questo caso del mare. Sottolineo che più che un costo queste misure rappresentano un investimento, poiché spendere un euro per restaurare un ecosistema porta a un ritorno dell’investimento da sette a 40 volte superiore che produce poi valore. Per fare un esempio, in alcuni tratti di costa si potrebbero sostituire le barriere frangiflutti con delle praterie sommerse di Posidonia oceanica, che da un lato costerebbero meno e si manterrebbero da sole, dall’altro frenerebbero l’erosione costiera, aiuterebbero il ripopolamento delle popolazioni ittiche e il sequestro di carbonio, rappresentando una soluzione basata sulla natura più conveniente e sana. Una prateria di Posidonia porta a limitare l’erosione costiera e ad avere più spiaggia, un beneficio per molte aree. Inoltre va sottolineato che nei processi di restauro la ricerca accademica individua il protocollo e il metodo più adatto ma sono poi le piccole e medie imprese private a implementare il progetto, e i finanziamenti andrebbero dati a queste che avrebbero così la possibilità di crescere e di sviluppare nuove professionalità.

Per quanto riguarda le praterie sottomarine di Posidonia, quali approcci si utilizzano per restaurarle?
RD La Posidonia è una pianta marina endemica del Mediterraneo che è importante per il suo ecosistema, tanto che una direttiva dell’Unione europea ha inserito le sue praterie come habitat prioritario da tutelare. In passato il restauro prevedeva che si prendessero dei fasci di piante da aree molto ricche e si spostassero nei siti da restaurare, però si è notato che questa pratica non era molto efficace poiché è una pianta delicata che cresce molto lentamente, nell’ordine di alcuni centimetri l’anno. Si stanno provando altre tecniche, come prelevarla con il sedimento intorno e trapiantarla con tutta la zolla nelle nuove aree per preservare l’integrità dei rizomi e delle radici, ma anche interventi più avanzati come la raccolta dei semi e dei frutti, le cosiddette olivine di mare, la cui coltivazione viene iniziata in laboratorio e poi spostata nel mare. Si possono anche instaurare delle collaborazioni con i pescatori artigianali (la pesca industriale è vietata su tutte le praterie di Posidonia), a cui capita che nelle reti o nei palamiti rimangano impigliati dei fasci. Anziché buttarli, si possono recuperare e usare nel restauro ecosistemico, un’occasione di recupero dal danneggiamento involontario.
Che effetti positivi può avere il restauro negli ecosistemi marini?
RD Gli effetti sono talmente tanti che è quasi difficile elencarli tutti. Rimanendo sulla Posidonia, una prateria in salute aumenta la stabilità del fondale e protegge dall’erosione costiera, un fenomeno molto diffuso in Italia dove si perdono vari metri di spiaggia all’anno per l’erosione. Inoltre le praterie sono zone in cui molti pesci si riproducono e dove crescono gli avannotti (piccoli di pesce), ma sono aree importanti anche per la biodiversità, per la produzione di ossigeno e il sequestro del carbonio, oltre a diminuire l’impatto dell’acidificazione oceanica mantenendo l’acqua più salubre.

Per quale motivo nei mari a livello mondiale sono state intraprese meno azioni di recupero rispetto agli habitat terrestri?
RD Il primo ostacolo nella protezione del mare è la sua scarsa visibilità, per esempio i satelliti che possono osservare e fotografare senza problemi gli ambienti terresti non riescono “a vedere” nelle profondità del mare, quindi è difficile rendersi conto del degrado marino. Inoltre intervenire sott’acqua è decisamente più complesso e costoso. Mentre in un progetto di piantumazione si possono coinvolgere i residenti locali, senza bisogno che questi siano degli agronomi esperti, nell’ambiente marino questo non è possibile, perché bisogna immergersi con tecnologie e imbarcazioni specifiche e perciò il restauro degli habitat marini è incominciato più tardi. Gli ostacoli sono sia a livello pratico sia economico, però esistono degli esempi positivi nel settore, anche perché l’Italia è un modello a livello europeo nel restauro marino grazie alla ricca comunità scientifica che coordina vari progetti internazionali. L’Istituto superiore per la protezione ambientale (Ispra) sta guidando il programma “Marine ecosystem restoration” che si concentra sul restauro di alcuni habitat mediterranei e soprattutto sulla tutela dei banchi naturali di ostriche, il cui 85% in Italia è andato perso, ecosistemi che ospitano una grande diversità di specie e sono importanti nella filtrazione e quindi nella qualità dell’acqua. Un altro esempio è il progetto Redress, il primo a livello europeo per il restauro delle profondità marine, coordinato dall’Università Politecnica delle Marche insieme a 25 partner internazionali. Si lavora sugli habitat sotto i 200 metri di profondità, spesso quelli più colpiti dalla pesca a strascico e dall’inquinamento. Lavorare negli abissi è una sfida anche tecnologica, perché non è possibile andarci in immersione, con questo progetto si stanno sviluppando e testando nuove tecnologie, dal Mare del Nord fino al Mediterraneo, per mettere a punto le procedure adatte per restaurarli.
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