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La salute precaria del Servizio sanitario nazionale. Privo di risorse

Secondo il Censis, nel 2016, 11 milioni di italiani hanno rinviato o rinunciato a prestazioni sanitarie a causa delle difficoltà economiche - © Silvano Del Puppo / Fotogramma

Nato nel 1978, il diritto “universale” alle cure è in sofferenza. Il finanziamento statale copre i tre quarti delle prestazioni e, dal 2019, la spesa pubblica potrebbe scendere sotto la soglia di guardia indicata dall’Organizzazione mondiale della Sanità

Tratto da Altreconomia 192 — Aprile 2017

La salute degli italiani è a rischio: se nel 2015 la spesa sanitaria pubblica era pari al 6,8% del prodotto interno lordo, nel 2019 dovrebbe scendere al 6,5%. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, è il limite oltre il quale inizia a calare l’aspettativa di vita. Perché chi analizza la qualità dell’assistenza sanitaria e di quella socio-assistenziale non può limitarsi a un’analisi costi-benefici, o alla ricerca della sostenibilità finanziaria. “Bisogna, anzi, distinguere tra questa e la ‘sostenibilità sociale’, e allora ci rendiamo conto che il sistema presenta già squilibri e forti problemi”, spiega Francesco Longo, direttore del CERGAS, il Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale dell’Università Bocconi, www.cergas.unibocconi.it.
In un sistema formalmente universalistico come quello del nostro Servizio sanitario nazionale (SSN), questo significa che esistono delle prestazioni che dovrebbero essere garantite ma non sono -già nel 2015- coperte dal finanziamento pubblico.
Ogni anno il CERGAS pubblica un Rapporto, frutto del lavoro di un Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano: l’analisi dei dati economici descrive un Servizio sanitario nazionale in profonda sofferenza, e capace di coprire con il finanziamento pubblico -che è pari a circa 115 miliardi di euro, ed ha una curva di crescita sostanzialmente piatta dal 2010- poco più dei tre quarti dei “consumi”, mentre altri 34,5 miliardi, pari al 23% delle prestazioni, sono pagati dalle famiglie. “Ciò comporta livelli di iniquità nell’accesso alle prestazioni -dice Longo-, perché chi non ha i soldi non ha più accesso a determinate prestazioni, che non sono garantite dal SSN”. L’equilibro di bilancio del SSN, insomma, “dipende” oggi dalla capacità delle famiglie di farsi carico direttamente di sostenere il 40% circa dei costi legati alle prestazioni ambulatoriali per visite specialistiche, il 40% delle spese per la riabilitazione, il 95% di quelle odontoiatriche e circa un terzo della spesa farmaceutica.

Dal 2010, tra tagli e mancati aumenti il Servizio sanitario ha lasciato per strada oltre 35 miliardi di euro. Mentre il fabbisogno da qui al 2025 sfiora i 200 miliardi di euro

Da un punto di vista sociale, però, questo non funziona: secondo un’indagine del Censis, nel 2016 sarebbero stati 11 milioni (2 milioni in più rispetto al 2012) gli italiani che hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie a causa di difficoltà economiche; nel 2015, invece, l’Istat ha diffuso l’ultima indagine sull’accesso alle cure odontoiatriche: tra il 2005 e il 2013, la percentuale di quanti erano andati da un dentista nell’ultimo anno è passata dal 39,3 al 37,9% della popolazione; ancora più marcata la differenza in percentuale tra quanti, pur non rinunciando alla visita, hanno svolto un unico trattamento: erano il 49,3% nel 2005 e il 70,7% nel 2013.
Ecco perché mentre il SSN si prepara a compiere quarant’anni -è stato istituito nel dicembre del 1978-, tiene banco da quasi due la preparazione, la discussione in Parlamento, l’approvazione, l’adozione e infine la pubblicazione in Gazzetta ufficiale (avvenuta il 18 marzo 2017) di un elenco che aggiorni le prestazioni considerate “essenziali”, il cui acronimo è LEA (Livelli essenziali di assistenza), oggi regolati dal un decreto del 2001. Rappresenterebbero, infatti, un ampliamento dei diritti, almeno in maniera formale. È un intervento necessario: nel 1999, quand’è stato aggiornato per l’ultima volta l’elenco delle protesi, probabilmente non esistevano nemmeno apparecchi acustici a tecnologia digitale e attrezzature domotiche. Con i nuovi LEA, inoltre, viene “espanso” l’elenco dei vaccini forniti gratuitamente, che includerà anche Pneumococco, Meningococco, Varicella e HPV (anti-papilloma virus). Ancora: l’elenco delle “malattie rare” viene allungato di circa 110 patologie, mentre altre sei diventano “croniche”, rendendo più ampia la platea di coloro che saranno “esentati” dal pagamento dei ticket, una delle forme di compartecipazione privata alla spesa sanitaria.

In Germania il finanziamento pubblico al servizio sanitario è pari al 9,4% del Pil. In Francia è l’8,4%. In Italia “pesa” solo il 6,8%. Ed è in costante discesa

Per “realizzare” tutto questo sarebbe sufficiente, secondo il Governo, un impegno aggiuntivo di circa 800 milioni di euro all’anno, ma una nota del dicembre 2016 del Servizio del bilancio del Senato ha criticato le “stime” relative ai maggiori oneri contenute nello Schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri relativo ai LEA. Secondo Nino Cartabellotta, medico e presidente della Fondazione GIMBE (Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze), promotore della campagna “Salviamo il nostro SSN” (www.salviamo-ssn.it), il “traguardo politico” dell’approvazione dei nuovi LEA “rischia di trasformarsi in un’illusione collettiva con gravi effetti collaterali: l’allungamento delle liste d’attesa e l’aumento della spesa per le famiglie, sino alla rinuncia alle cure”. Abbiamo il “paniere LEA” più ampio d’Europa, ma in media spendiamo per la Salute un terzo in meno di Francia e Germania, Paesi con una situazione epidemiologica -e competenze scientifiche- simili all’Italia. “Il ‘decreto LEA’ -spiega Cartabellotta- non prevede alcuna metodologia esplicita per inserire/escludere le prestazioni meno appropriate”. Fondazione GIMBE ha calcolato in 200 miliardi di euro il fabbisogno del SSN al 2025, in aumento del 25 per cento (circa) rispetto al 2015.

A fronte di questo plausibile aumento, prevedibile perché legato a fattori demografici -il 22,3% della popolazione ha ormai più di 65 anni- e statistici -il 38% degli italiani dichiarano almeno una patologia cronica (Istat, 2016) e il 5% non sono autosufficienti-, che comportano secondo il CERGAS “trend epidemiologici in peggioramento”, Cartabellotta parla di un “imponente definanziamento della sanità pubblica”. Dal 2010, “tra tagli e mancati aumenti il SSN ha lasciato per strada oltre 35 miliardi di euro”, quasi cinque ogni anno, spiega il presidente di Fondazione GIMBE. È lui a sottolineare ad Altreconomia il rischio descritto nel Documento di economia e finanza (DEF) 2016, la discesa del finanziamento pubblico sotto la soglia di guardia dell’Organizzazione mondiale della Sanità.
La pratica ha portato il SSN e le Regioni, cui spetta la gestione del budget, a un “universalismo selettivo”, i cui confini sono stati però definiti in modo implicito, in assenza di un dibattito pubblico: si è scelto così di coprire il 100% dei ricoveri, delle cure primarie e delle vaccinazioni, e le spese per il pronto soccorso nella quasi totale interezza. Questa dinamica rende però pressoché impossibile per un cittadino capire fin dove arrivino i suoi “diritti”, comprendere quali siano quelli che pur riconosciuti sulla carta non sono ‘agibili’”. In altri Paesi europei, il finanziamento pubblico al SSN è maggiore, in termini percentuali. Se guardiamo alla Germania, è pari al 9,4% del PIL; in Francia è invece all’8,4% (noi, ricordiamo, siamo al 6,8%, dato in tedenziale discesa).
Se misuriamo la distanza in punti percentuali, però, finiamo per mettere al centro dell’analisi la sostenibilità economica. Se mettiamo nuovamente al centro quella “sociale”, è possibile invece cogliere aspetti più interessanti. L’invecchiamento medio della popolazione (a marzo l’Istat ha certificato un aumento dell’età media della popolazione di due anni negli ultimi dieci, da 42,9 a 44,9; gli ultra 65enni sono ormai 13,5 milioni contro gli 11,7 milioni di dieci anni fa, ndr), ad esempio, è un problema figlio di un deficit di spesa socio-assistenziale, che però finisce col pesare anche sulla Sanità: “Esistono solide basi di letteratura che dimostrano come l’allungamento della vita media non aumenti la spesa sanitaria, perché il periodo della vita in cui ne ‘consumiamo’ è rappresentanto dagli ultimi dieci anni, e non cambia se questi siano nei settanta o negli ottanta -spiega Francesco Longo-. L’invecchiamento della popolazione, però, porta a un’esplosione della spesa socio-assistenziale, cui non siamo preparati. Non esiste un sistema di protezione adeguato per la ‘cura di lungo termine’, che dovrebbe essere trattata come il sistema pensionistico o la scuola. Su un totale di 2,5 milioni di persone non autosufficienti, così, 2,3 milioni non sono assistite, se non dai propri familiari; circa 1,5 milioni ricevono un assegno di accompagnamento, ma 500 euro al mese potrebbero non bastare”.

“L’invecchiamento della popolazione porta a un’esplosione della spesa socio-assistenziale, cui non siamo preparati. Non esiste un sistema di protezione adeguato per la ‘cura di lungo termine’” (Francesco Longo)

Succede così che gli anziani, o meglio le loro famiglie, frequentemente accedano al settore sanitario in maniera congrua rispetto al loro bisogno ma incongrua rispetto alla natura dei servizi; quei 2,3 milioni un paio di volte all’anno vanno al Pronto soccorso, e vengono ricoverati due volte in medicina, ma il contenuto clinico di quelle degenze è pari a zero. “Questa è una forma, legittima rispetto ai ‘bisogni’ delle famiglie, di abuso di Sanità, che però danneggia il sistema”. Lo sostiene il docente della Bocconi, e lo dice anche l’OCSE, in un rapporto dedicato agli sprechi in Sanità (Tackling Wasteful Spending on Health, 2017): in Italia il 20 per cento degli accessi al pronto soccorso sono evitabili. Di esempi di overuse, però, ce ne sono anche altri: “Nel nostro Paese circa il 50 per cento delle prestazioni radiologiche sono inappropriate, e così circa la metà delle angioplastiche fatte ‘in elezione’, ovvero dopo una visita in laboratorio” come spiega Antonio Bonaldi, già direttore sanitario dell’Ospedale “San Gerardo” di Monza. Bonaldi è presidente di Slow Medicine (www.slowmedicine.it), l’antenna italiana della campagna Choosing Wisely -tradotto come “fare di più non significa fare meglio”-, che anche l’OCSE cita come “buona pratica” nel suo report sugli sprechi. Secondo l’OCSE, un quinto della spesa sanitaria non aiuta a migliorare la condizione di salute.
In Italia, Fondazione GIMBE stima oltre 24 miliardi di sprechi. I Livelli essenziali di assistenza (LEA), in quest’ottica, possono diventare un efficace strumento di controllo, perché garantiscono il monitoraggio e la verifica dell’effettiva erogazione delle prestazioni. Il 13 marzo 2017 sono stati pubblicati i dati relativi al 2014 (e al vecchio “paniere LEA” del 2001), che offrono spunti in grado di indirizzare le politiche. Due esempi, significativi: l’Organizzazione mondiale della Sanità indica nel 15% il tasso massimo di parti cesarei, ma in Italia la Regione che registra quello più basso è il Friuli-Venezia Giulia, con il 17,21%, e si registrano punte del 50,01 (in Campania). Per contro, in ben 11 Regioni -anche nel Nord del Paese- viene eseguito in misura inferiore al tasso considerato adeguato (il 55%) un intervento definito “salvavita”, come la ricomposizione della frattura del collo del femore nei pazienti di oltre 65 anni.

In dettaglio
L’INTERMINABILE ATTESA DEI “LEA”
Dignità della persona umana, bisogno di salute, equità nell’accesso all’assistenza, qualità delle cure e loro appropriatezza rappresentano i princìpi che guidano l’individuazione di “livelli essenziali e uniformi di assistenza” (LEA), secondo l’articolo 1 del decreto legislativo 502/1992. I LEA non riguardano solo l’assistenza in ambito ospedaliero, ma anche “in ambiente di vita e di lavoro” -tra gli indicatori di un’adeguata erogazione figurano (nel 2016) le analisi in allevamento contro la tubercolosi bovina e le ispezioni agli esercizi di somministrazione-.
Dall’inizio degli anni Novanta, serviranno nove anni per arrivare all’approvazione del decreto del Presidente del consiglio dei ministri “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”, il DPCM del 29 novembre 2001. È il 4 febbraio del 2015 quando il ministro della Salute Beatrice Lorenzin presenta alle Regioni -che gestiscono il budget di spesa del Servizio sanitario nazionale- la documentazione sui “nuovi LEA”. Il 12 gennaio 2017 il primo ministro Paolo Gentiloni ha firmato il DPCM che li recepisce, che è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale solo sabato 18 marzo.

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