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Economia

La sabbiatura dei jeans, abolita solo a parole

“Deadly denim: jeans letali” è il titolo del nuovo rapporto della Clean Clothes Campaign, rappresentata in Italia dalla campagna “Abiti puliti”. Poco più di cinquanta pagine che denunciano l’assurdo binomio esistente tra una moda (quella dei jeans resi artificialmente rovinati, vissuti) e le vite dei lavoratori costretti a soddisfarla. Sette fabbriche ispezionate, in Bangladesh. Tra i marchi coinvolti H&M, Levi’s, C&A, Dolce&Gabbana, Esprit, Lee, Zara e Diesel: tranne D&G, tutti avevano assicurato di aver bandito la "sabbiatura"

Il rapporto, frutto di uno studio condotto presso nove aziende, riguarda nello specifico il Bangladesh, dove il settore dell’abbigliamento rappresenta circa l’80% dell’export, per un valore, relativo al corrente anno fiscale, di 17 miliardi di dollari. Terzo dopo Cina e Turchia, il Bangladesh ha esportato lo scorso anno 200 milioni di paia di jeans, 86 milioni di questi sottoposti alla tecnica della sabbiatura, necessaria per rendere il denim invecchiato.
Secondo “Deadly denim”, attraverso proiezioni sottostimate, sarebbero circa 2.000 i lavoratori che se ne occupano a tempo pieno, con un salario medio di 32 Euro. I pantaloni prodotti in questo Paese dell’Asia costituiscono il 19% del totale importato dall’Unione europea. Sale la quantità, scende il prezzo: nel 2009, dopo un crollo del valore di circa il 22%, il Bangladesh si è imposto come il competitor più economico del mercato europeo.
Ma qualcuno paga il prezzo di questa scelta.
Per conferire ai pantaloni l’aspetto consumato, rimuovendo perciò la pigmentazione scura tipica dell’indumento, le aziende impiegano la tecnica della sabbiatura (sandblasting). Questo processo può svolgersi in due modi: manualmente o meccanicamente.
“Questa moda -si legge nel rapporto- ha un prezzo: la salute e qualche volta addirittura la vita dei lavoratori”. La sabbiatura manuale consiste nel sottoporre la superficie del jeans a una “tempesta di sabbia” a fortissima pressione attraverso un bocchettone impugnato da un singolo lavoratore. Questo processo si svolge in strutture inidonee sprovviste di adeguata ventilazione: il che può determinare, in casi di intensa esposizione, “malattie mortali come la silicosi” (data dall’inalazione di particelle di silice, contenute nella sabbia) e il tumore ai polmoni (dal momento che i cristalli di silice intaccano gli alveoli e i tessuti connettivi). Anche la tecnica di sabbiatura meccanica, meno diffusa rispetto alla precedente perché più costosa, “continua a esporre i lavoratori alle polveri di silice”, particella classificata in Olanda e Danimarca come cancerogena. Sulla stessa lunghezza d’onda si è espresso l’Istituto nazionale per la sicurezza sul lavoro statunitense (Niosh) che, nel 1992, denunciava le ricadute della tecnica abrasiva.
La Turchia, che è il terzo produttore mondiale nell’industria dell’abbigliamento, insieme a Cina e Bangladesh, ha messa al bando la tecnica letale nel 2009, grazie ai medici che per primi hanno suonato l’allarme circa l’incidenza di silicosi negli addetti alla sabbiatura per indumenti. L’opzione turca ha costretto i committenti a spostarsi verso altri lidi: India, Pakistan, alcuni Paesi del Nord Africa e -ovviamente- Cina e Bangladesh.
Nel novembre 2010 Clean Clothes ha lanciato la “Killer Jeans Campaign”. L’obiettivo è di impedire che la sabbiatura possa essere impiegata ancora. Come spesso accade, la gran parte dei grandi marchi aderisce al progetto, eccezion fatta per Dolce & Gabbana, che rifiuta sia il metodo che il merito dell’istanza, rifiutandosi di condividere le informazioni relative alle scelte industriali in materia di sabbiatura. Tra dire e fare c’è di mezzo un mare di sabbia, denuncia il rapporto. Vedasi il “caso Bangladesh”, oggetto di studio, dove si mostra come la tecnica manuale di sabbiatura continui “regolarmente” ad essere impiegata.
La ricerca, realizzata dall’Alternative Movement for Resources and Freedom, è stata condotta intervistando 73 lavoratori (di 9 aziende). Poco meno della metà di questi, dietro la garanzia dell’anonimato a scopo cautelativo, ha riconosciuto i loghi dei marchi per cui lavora la propria azienda: tra questi ci sono H&M, Levi’s, C&A, D&G, Esprit, Lee, Zara e Diesel. Alcuni degli intervistati hanno descritto tempi e modi della sabbiatura, talvolta utilizzata per ventiquattro ore al giorno suddivise su due turni in grandi stanzoni polverosi e privi dei minimi requisiti di sicurezza (a partire dalle mascherine per evitare l’inalazione).
Ne è prova la storia di Mohammad, venticinquenne, operatore di macchina nel settore della sabbiatura meccanica. Immerso per due anni in una fitta nebbia di polvere (“thick fog”), il lavoratore si è visto diagnosticare (a sue spese, dato che non è prevista alcuna compensazione aziendale) un’insufficienza respiratoria. I dottori lo hanno tranquillizzato: “Le sue condizioni non sono serie, può guarire”. Mohammad, si legge nel rapporto, ha descritto come la mascherina non sia altro che un palliativo, dal momento che si ritrova a tossire vere e proprie “palle di sabbia”. Storia analoga è quella di Rashed, di un anno più giovane del primo. Dopo la permanenza in stanze dove si occupava di sabbiatura meccanica per quattro anni si è ritrovato a tossire sangue. Così Abdul, ammalatosi nel giro di due anni, ritrovatosi a tossire sabbia. Alla richiesta di cambiare unità di lavoro, alla luce di un peggioramento oggettivo, i datori di lavoro hanno risposto negativamente.
Il rapporto solleva poi forti perplessità circa la preparazione e la competenza delle istituzioni sanitarie del Bangladesh. “Contrariamente ai colleghi turchi -si legge- i medici del posto prescrivono trattamenti eccessivamente onerosi per i lavoratori della sabbiatura”. Unito alla scarsa predisposizione degli ospedali, sprovvisti dell’equipaggiamento necessario, si comprende perché sulla carta siano pochi i pazienti in cura per silicosi. Una “cospirazione del silenzio” che dipende in parte da incredibili conflitti di interessi. Il proprietario del gruppo Shanta, che occupa 6.000 lavoratori, ha anche il controllo di uno tra i più grandi ospedali del Paese asiatico.
Una situazione “estremamente grave” secondo Clean Clothes, che richiede scelte nette da parte di molteplici attori. Prima di tutto i marchi, chiamati a monitorare realmente i propri fornitori agendo prima di tutto sul design dei prodotti, per eliminare alla fonte il problema. Successivamente i governi, responsabili ad oggi di una legislazione permeabile e remissiva nei confronti della messa al bando della tecnica di sabbiatura. Ed infine l’Europa, ancora defilata rispetto all’eventualità di vietare l’importazione di jeans sabbiati.
Secondo Deborah Lucchetti, di Abiti Puliti, “al contrario di quanto sostengono pubblicamente, i marchi non sono disposti a modificare lo stile dei loro prodotti o a modificare i tempi e costi di produzione per permettere ai fornitori di adottare metodi alternativi che comportano lavorazioni più sicure, con il risultato di continuare a incentivare l’uso, clandestino o alla luce del sole, della sabbiatura. È noto da anni il rischio professionale di contrarre la silicosi per migliaia di lavoratori tessili -continua Lucchetti-: le imprese devono fare di più per eliminare definitivamente l’uso della tecnica potenzialmente fatale”.

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