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Ambiente / Opinioni

La ristrutturazione conviene

Serve un’opzione politica e culturale forte verso il riutilizzo del patrimonio edilizio esistente. Favorendo interventi più economici del costruire ex novo. “Piano terra”, l’editoriale di Paolo Pileri

Tratto da Altreconomia 190 — Febbraio 2017
Un operaio edile al lavoro nella ristrutturazione di un immobile - http://www.negrodanillo.it

L’ottantenne papà di Aldo vuole ristrutturare una parte della casa di famiglia in Brianza. Chiama un’impresa. Vengono, prendono le misure, guardano muri, travi, tetto. Un paio di giorni e arriva il responso: “Recuperare non conviene, meglio buttar giù tutto e rifare”. Il vecchio incassa il verdetto, ma Aldo, architetto attento alla sostenibilità, non è convinto e chiama altre imprese specializzate in recupero. Parte la sfida che si giocherà sui carboni ardenti della convenienza economica. Arrivano i nuovi preventivi, simili per prezzo ma non per rischi. Il figlio dà rassicurazioni, il padre cede. Dopo qualche mese il cantiere è chiuso, il portico e l’edificio annesso sono recuperati. Tutto è riuscito bene, ma la sorpresa è il conto: 5mila euro in meno dell’impresa che voleva buttar giù tutto e rifare.

90.500. È lo stock di abitazioni nuove e invendute in Italia a gennaio 2016. Un dato in calo del 23,6% rispetto alle 118.400 del gennaio 2014, ma comunque impressionante (Scenari Immobiliari)

Questa piccola storia riporta l’attenzione sull’annoso dilemma: recuperare sì o no? Nell’interesse collettivo, ogni recupero porta molti vantaggi: meno spesa per opere pubbliche, meno suolo consumato, città più belle. Eppure in Italia si recupera/ristruttura pochino. Un dato emblematico: secondo l’Agenzia delle Entrate la spesa degli italiani per mettere a posto i propri immobili è ferma all’1,5-2,5% del reddito familiare, e sono prevalentemente i ricchi a usare gli incentivi (uso della detrazione fiscale del 36%; dato del 2012). Insomma, recuperare è qualcosa che non decolla. I motivi sono tanti. Innanzitutto -stupitevi!- sappiamo poco e male di un tema così nodale: le istituzioni non fanno monitoraggi accurati e i dati sono sempre troppo vecchi. Ma ci sono altre ragioni: come abbiamo visto dal caso di Aldo, ci sono imprese che preferiscono spingere per l’ex novo, vuoi perché ci guadagnano (loro) di più, vuoi perché traballano davanti alle sfide tecniche che, inevitabilmente, il recupero richiede. Ma non è solo un problema di imprese: la maglia della volontà pubblica è ancora troppo larga. Gli incentivi, da soli, non vanno forte. Forse è ora di agire sul fronte dei disincentivi ovvero su “spinte gentili” che dissuadono chi preferisce non recuperare.

Ad esempio, se i piani urbanistici continuano a offrire opportunità per urbanizzare su suoli liberi, recuperi/ristrutturazioni/rigenerazioni rimangono al palo. Allora si congelino subito il 90% delle previsioni. Se il legislatore con una mano vuole fermare i consumi di suolo ma con l’altra concede deroghe e margini al consumo, il mercato del recupero rimarrà sconveniente: bisogna che i nostri sistemi amministrativi cambino paradigma e facciano scelte più coraggiose, nette.

Quando attorno a Londra si scelse di far decollare le rigenerazioni, si usò la via perentoria: zero consumi di suolo, da subito, fintanto che almeno il 60% del recuperabile non fosse stato a posto. Alla fine la questione è politica e culturale al tempo stesso. Politica nel senso che il recupero del patrimonio privato e pubblico italiano deve essere il titolo di un progetto politico forte, convinto e duraturo che mette al tappeto chi vuole costruire ex novo. Culturale nel senso di alimentare con maggior vigoria l’opzione del recupero nei tecnici e nei cittadini, contrastando l’illusione che il nuovo è meglio a prescindere. In fondo “costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre” (M. Yourcenar). Occupiamoci allora di curare le ferite di ieri senza farne di nuove, largamente inutili.

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