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La rete miope sulla “web tax”

Approvata nella legge di stabilità lo scorso dicembre, è stata di nuovo rinviata al primo luglio 2014. Storia e natura di un giusto adeguamento fiscale a carico dei big della pubblicità e del commercio online che tarda ad arrivare —

Tratto da Altreconomia 157 — Febbraio 2014

“Spunta la tassa su Google”. Era il primo novembre 2013, e il titolo de Il Messaggero segnalava i primi passi dello sfortunato iter legislativo volto a introdurre un meccanismo in grado di regolamentare il regime fiscale delle multinazionali della “rete”, garantendo un gettito di almeno 2 miliardi di euro.
Il provvedimento avrebbe dovuto interessare, all’inizio del percorso, sia chi vende servizi pubblicitari online sia chi si occupa di commercio elettronico. Da Google a Yahoo!, da Facebook ad Amazon, per citarne alcune, aziende che seguono da tempo il medesimo spartito: operano in Italia ma fatturano in Paesi a fiscalità agevolata. Nel caso dei giganti della pubblicità online, che vale 1,5 miliardi di euro (dato 2012), la filiale italiana funge da procacciatore di affari per la controllante irlandese o olandese, in cambio di royalties commerciali. Un artificio legittimo e tollerato grazie al quale, nel solo 2012, società come Google, Facebook e Yahoo! -che raccolgono oltre il 65% del monte pubblicitario sulla rete- hanno pagato in Italia imposte per “solo” 2,1 milioni di euro. 

Per porre un rimedio a una situazione che vede così esiguamente tassati soggetti che fatturano complessivamente, al terzo trimestre 2013, 2,02 (Facebook), 14,89 (Google) e 17,09 miliardi di dollari (Amazon), Edoardo Fanucci, deputato del Partito democratico e membro della Commissione bilancio della Camera, ai primi del mese di novembre 2013 mette a punto insieme a quattro colleghi un emendamento alla Legge di stabilità 2014, che in qual momento è discussa in Commissione. Propone una riforma del Decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972 intitolato “Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto”. La proposta Fanucci aggiunge un articolo, il 17bis, che prevede due punti. Il primo: “I soggetti passivi che intendano acquistare servizi online, sia come commercio elettronico diretto che indiretto […] sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita Iva italiana”. Il secondo: “Gli spazi pubblicitari online e i link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca […] devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti […] titolari di partita Iva italiana”. La partita Iva, dunque, è secondo Fanucci il tassello che manca per trattenere in Italia gli utili di chi fattura il “cuore” della transazione all’estero. Questa è la prima versione di quel che la cronaca giornalistica definirà “web-tax”, paragonando impropriamente una tassa per grandi e pochi ad una minaccia alla libertà di navigazione di tanti e piccoli utenti web.

Ad esempio Il Fatto Quotidiano, che l’11 dicembre 2013 sostiene: “Il gettito è gonfiato” perché “ ipotizzando che l’intero settore sia in mano esclusivamente ai grandi player stranieri, per tirare fuori un miliardo occorrerebbe un fatturato quattro volte più grande”. Ma l’errore era, semmai, per difetto, dato che l’imposta su un monte di 11,3 miliardi di euro (dati del Politecnico di Milano) qual è il fatturato dell’ecommerce italiano equivarrebbe a 2,48 miliardi di euro. Il 15 dicembre Il Sole 24 Ore mette in guardia rispetto alla compatibilità normativa con il diritto comunitario. Il Corriere della Sera parla di “bufera” sull’imposta e riporta un virgolettato di Confindustria: “Alle imprese servono regole certe”. Libero taglia corto: “Dalla Tobin alla Google tax: quei fallimenti annunciati”, perché animati da un “istinto plebeo” che tradisce il “non aver capito nulla della globalizzazione”. Il 17 dicembre Il Secolo XIX smaschera il “doppio gioco” della “furbata che non funziona”. Il giorno dopo è ancora Il Sole 24 Ore a dedicare spazio alla proposta di regolamentazione dei profitti dei giganti online: “La web tax farà la fortuna dei fax”, è il titolo, perché produrrà carteggi e poco più. Nel sommario l’amaro pronostico: “I commercianti, come tutti gli esseri umani, di fronte a un muro cercano di aggirarlo”. Più o meno volontariamente, i giornali facilitano il lavoro di chi s’attarda a sventare il rischio imposta: i lobbisti. Stando al presidente della Commissione V della Camera, Francesco Boccia, e il primo firmatario dell’emendamento Fanucci, infatti, in quei giorni si muovono anche “lobby molto potenti”, “colossi Usa”, “gli americani”. Chiamano tutti, riferisce l’onorevole Boccia, persino lui.

E se i lobbisti agiscono sotto voce, due tra i principali leader politici del Paese si ritrovano concordi, e alzano il tiro. Sono Beppe Grillo e Matteo Renzi. Il primo la definisce “follia”, il secondo invoca l’aiuto europeo: “È un errore, ci pensi l’Ue” e mette in guardia dal rischio di perdere posti di lavoro -ignorando forse che Google, Facebook e Yahoo! in Italia contano complessivamente 929 dipendenti-. Il risultato è raggiunto. Il 12 dicembre la Commissione V dichiara “accantonato” l’emendamento Fanucci. Contro di esso, in sede referente, si schierano il relatore del disegno di legge di stabilità -Maino Marchi (Partito democratico)- e il commissario Giampaolo Galli (Pd). Per il secondo, la norma “non appare coerente con le regole stabilite in materia dall’Unione europea e dal World Trade Organization”. Il giorno dopo, il 13 dicembre, Fanucci ripropone -riformulandolo e concentrando l’attenzione alla sola pubblicità online e non più all’ecommerce- l’emendamento. Ai primi due, si aggiungono alle fila dei contrari altri due parlamentari: Marco Causi (Pd) e Carlo Galli (Pd). La “linea Boccia”, però, passa. L’emendamento è approvato. Il testo passa alle Camere.

“Abbiamo perso tutti” è il commento amaro di un blogger de ilfattoquotidiano.it, l’avvocato Guido Scorza. La proposta approvata è una “brutta legge, anti-europea, di dubbia legittimità costituzionale, sostanzialmente inapplicabile ed anacronistica”. S’intuisce il rammarico, forse condiviso dalla piattaforma che ospita il suo contributo che raccoglie pubblicità tramite il gruppo Populis (Populis Srl e E-Box Srl) e registra ricavi grazie a “prestazioni di servizi effettuate a favore della diretta controllante Populis Ireland Limited, società di diritto irlandese”. Come Google.
Il 24 dicembre 2013 la rivista Forbes pubblica un pezzo firmato da un collaboratore, Tim Worstall: “È illegale e sbagliata”, il suo giudizio sulla “Google tax” passata al Senato della Repubblica. All’interno del pezzo, elogia Beppe Grillo (“ha capito immediatamente”) e cita a sostegno della propria tesi il professore di legge dell’Università di Lancaster, Sol Picciotto -membro di Tax Justice Network, organizzazione internazionale in prima fila contro i paradisi fiscali e l’evasione-. Secondo Worstall, infatti, anche Picciotto avrebbe di fatto smontato l’impianto della norma italiana, bollandola come “contraria alle norme comunitarie”. Due giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, il blog di Grillo ne mette in prima pagina una traduzione. “Google tax, il governo degli incompetenti”, è il titolo della trascrizione. Ma la fonte di Grillo è debole. Ad Altreconomia, infatti, Sol Picciotto chiarisce la sua posizione: “Le conclusioni di Worstall sono diverse dalle mie. Il mio parere è che la legislazione italiana abbia voluto mettere pressione all’Ue e all’Ocse, per comportare efficaci cambiamenti alle norme fiscali sull’ecommerce. Se il dibattito politico sarà intenso e diffuso non importa se la legge italiana dovesse essere dichiarata contraria al diritto comunitario. Avrà comunque sortito il suo effetto”. A prenderne atto, infatti, dovrà essere anche la commissione di esperti costituita il 22 ottobre 2013 in seno alla Commissione europea, proprio per tracciare un percorso comune a proposito di tassazione dell’economia digitale. Il Regno Unito ha ripreso a dibatterne all’inizio di quest’anno, dal momento che nel 2012 -secondo il Financial Times- Apple, Microsoft, eBay, Google e Amazon hanno pagato imposte per 54 milioni di sterline, a fronte di un fatturato complessivo di 15 miliardi (di dollari, fatturati soprattutto nello Stato Usa del Delaware).
A fine dicembre 2013 la “web tax” è legge, efficace dal primo gennaio 2014. Sta in Legge di stabilità (la 147 del 27 dicembre 2013). All’articolo 1, comma 33, è rimasta coinvolta nel meccanismo della partita Iva italiana soltanto la pubblicità online: Google, cioè, ma non Amazon.
Contemporaneamente, però, 4 parlamentari del Pd presentano alla Camera un ordine del giorno “in materia di web tax”. Sono Lorenza Bonaccorsi, Paolo Coppola, Marco Causi e Giampaolo Galli. La norma va a “nocumento del sistema produttivo italiano” e potrebbe determinare “richieste di risarcimento danni”. Per questo, l’ordine del giorno impegna al Governo “ad intraprendere ogni iniziativa urgente utile a evitare che la norma introdotta [in Legge di stabilità, ndr] procuri un danno anche solo indiretto allo sviluppo dell’economia digitale nel nostro Paese, eventualmente anche sospendendo gli effetti della norma introdotta”. L’ordine del giorno passa, com’è stato per la norma Fanucci-Boccia. Schizofrenia normativa che l’esecutivo guidato da Enrico Letta sana all’interno di uno dei due decreti cosiddetti “milleproroghe” (il numero 151 del 30 dicembre 2013). A tre giorni dall’entrata in vigore, la legge di stabilità è già riformata. L’applicazione della tassa sulle multinazionali online slitta al primo luglio 2014. La tassa si è persa -apparentemente- nella rete.

Fino alle polemiche della fine del mese di febbraio 2014. Quando quello che la cronaca giornalistica ha definito semplicisticamente "decreto salva Roma" -il 151 del 30 dicembre 2013, appunto- non è stato convertito dal Parlamento. Dunque, il "rischio" -o opportunità- è che la tassa possa effettivamente ritrovare la luce, entrando in vigore prima dell’inizio del prossimo luglio.

Montata la polemica, il Governo guidato da Matteo Renzi ha "risolto" il problema ("come promesso", ha dichiarato il presidente del Consiglio) approvando nuovamente un nuovo decreto. —
 

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