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Diritti / Intervista

“La razza zingara”: come le politiche del Comune di Roma hanno creato la “questione rom”

Dai campi nomadi ai villaggi attrezzati, negli ultimi 25 anni i piani per la popolazione rom voluti dalle Giunte hanno prodotto ghetti e marginalità, impedendo percorsi di inclusione. Nel libro “La razza zingara” Carlo Stasolla, presidente dell’associazione 21 luglio, ricostruisce che cosa è successo

Un insediamento informale a Roma L'immagine è pubblicata sulla quarta di copertina di "La razza zingara" di Carlo Stasolla

Negli ultimi 25 anni le politiche sulla popolazione rom adottate dalle diverse amministrazioni del Comune di Roma hanno portato alla costruzione di ghetti e marginalità. Dalla giunta di Francesco Rutelli negli anni Novanta a quella di Virginia Raggi, i piani sui “campi nomadi” hanno creato spazi periferici chiusi, organizzati per “difendere una cultura pensata come irriducibilmente altra e definita come tale su base razziale”. È la tesi sostenuta nel libro “La razza zingara” (Tau Editrice, 2021) da Carlo Stasolla, presidente dell’associazione 21 luglio, storica organizzazione che supporta persone in condizione di segregazione estrema e discriminazione.

In un approfondito lavoro denso di interviste e documenti, Stasolla ricostruisce in modo dettagliato le scelte prese dal Comune di Roma nell’ultimo quarto di secolo, i cortocircuiti e le contraddizioni che hanno condotto alla nascita e al consolidamento del modello dei “campi nomadi”, luoghi dell’esclusione per eccellenza dove si confina una “umanità altra”. Oggi nella Capitale ci sono 15 campi formali dove vivono circa 4.500 persone e sono circa 2.000 quelle negli insediamenti informali: spazi-contenitori, quasi sempre lontani dal centro, realizzati per una specifica etnia che a partire dall’abitare appare agli occhi dell’amministrazione culturalmente incapace di intraprendere percorsi di inclusione. In 25 anni, spiega Stasolla, non sono state trovate soluzioni valide a un modello che si è invece rafforzato.

Oltre alla prefazione scritta da Gianpiero Palmieri -vicegerente della diocesi di Roma e delegato per la Carità, per la pastorale dei migranti e dei gitani- e alla postfazione di Luigi Manconi e della ricercatrice Marica Fantauzzi, il libro è arricchito da un racconto inedito e autobiografico dell’autore. Nell’ultimo capitolo Stasolla parla dell’esperienza maturata in gioventù nei campi di Roma, osservatore diretto delle politiche cittadine, dove ha vissuto per 14 anni in una quotidianità pienamente condivisa e svolgendo una costante attività di ricerca, studio, monitoraggio per implementare politiche e pratiche basate sul rispetto dei diritti umani. “Non aveva mai raccontato prima questa storia”, spiega Stasolla. “È stato lo strumento per dare voce a chi vive dietro quelle lamiere di ferro”.

Stasolla, perché ha deciso di intitolare il libro “La razza zingara”?
CS Il titolo è una provocazione. La mia tesi è che i rom sono stati sempre considerati una umanità altra, una sub-umanità mai compiuta, rifacendosi a un’idea di razza. Sono stati visti e trattati come una razza a sé e questo presupposto, in modo più o meno elaborato, ha finito per condizionare le scelte delle varie amministrazioni di Roma. In città esiste l’Ufficio speciale rom, sinti e caminanti e uno che si occupa dei loro percorsi di scolarizzazione. Fino a pochi anni fa, i pulmini che andavano nei campi per portare i bambini a scuola erano segnati con una lettera “n” per indicare che a bordo c’erano bambini rom. Questo approccio trova la sua incarnazione nel sistema dei campi, avviato a Roma con la prima giunta del sindaco Francesco Rutelli (eletto primo cittadino nel 1993, ndr), presentato come la soluzione abitativa anche per chi iniziava ad arrivare dalla ex Jugoslavia in guerra. In nome di una diversità culturale che si sostiene di volere tutelare, si istituzionalizza un “abitare etnico”. I rom sono identificati come “nomadi”, quindi di “passaggio”, e per loro servono solo strutture transitorie, non definitive, e sempre diverse rispetto al resto della cittadinanza. Si inizia a creare l’immagine di una cultura rom e “nomadica” e la si cristallizza chiudendola nei campi. Sono spazi chiusi, periferici: appunto altri. Può essere fuorviante dare enfasi a una presunta univoca cultura e lingua rom: in Italia abbiamo ben 22 gruppi rom e sinti differenti tra loro. Come è sbagliato parlare di nomadi. Oggi su 180mila persone rom, 20mila vivono nei campi.

Il libro parla della città di Roma e di come l’amministrazione negli anni si sia posta nei confronti della “questione” dei gruppi rom, disciplinandone la vita e i rapporti con gli altri. Qual è la prima giunta che realizza i “campi rom”?
CS Partiamo dalla prima giunta Rutelli che nel 1994 elabora il “Piano nomadi”. Le persone che iniziano a scappare dalla guerra nella ex Jugoslavia non sono riconosciute come rifugiati ma come soggetti etnicamente diversi e iniziano a essere ghettizzati. Da quel momento le scelte delle successive amministrazioni si baseranno su una presunta diversità etnica. Se con Rutelli nascono i campi, con il sindaco Walter Veltroni (eletto per la prima volta nel 2001, ndr) si organizza tutto l’apparato associativo intorno ai campi. Di fronte a comunità collocate fuori dal Grande raccordo anulare, si sviluppa un settore pensato per creare inclusione ma rimanendo sempre all’interno dei campi. Con il sindaco Gianni Alemanno (eletto nel 2008, ndr) prevale un approccio securitario con la polizia presente tutto il giorno all’ingresso delle strutture e un tesserino identificativo che consente di entrare e uscire. La sindaca Virginia Raggi è eletta nel 2016 nei difficili momenti successivi a Mafia Capitale: nella sua amministrazione sono bloccati i bandi legati ad attività sociali e i campi diventano il luogo dell’abbandono istituzionale. A Roma negli anni la maggior parte dei “campi nomadi” è stata costruita in zone periferiche con il risultato che questa umanità è stata relegata sempre più verso i margini. La situazione non cambia con i pochi campi che si trovano all’interno della città: sono enclave, luoghi di isolamento relazionale e sospensione dei diritti. Già nel 2000 l’Italia era stata definita il “Paese dei campi” dall’European Roma Rights Centre. Oggi su tutto il territorio nazionale ce ne sono 120 pensati, aperti e gestiti dalle istituzioni. E in alcuni vivono famiglie da quattro generazioni.

Che differenze ha riscontrato rispetto ad altri Paesi europei?
CS Le differenze iniziano dagli anni Ottanta. Mentre in Spagna a Madrid i “campi nomadi” sono abbattuti, dove vivevano jitanos già presenti sul territorio insieme ai nuovi arrivati dai Balcani, in Germania e in Francia le persone che scappavano dalla guerra seguivano l’iter di chi faceva richiesta di protezione internazionale. Sono state accolte in centri e in appartamenti e inserite in rapidi percorsi per ottenere lo status di rifugiato. Non si guardava all’etnia ma alla loro condizione di richiedenti asilo. Sono stati avviati percorsi di inclusione come sarebbe avvenuto per qualsiasi altro cittadino e questo in poco tempo ha portato i suoi risultati anche perché chi arrivava aveva alle spalle titoli, studi, competenze. L’Italia è stata il solo Paese dove si riconosceva una diversità culturale in nome della quale si sosteneva che i rom non sarebbero stati capaci di vivere in luoghi convenzionali. Così sono stati aperti spazi contenitori per racchiuderli.

Che cosa si può fare per superare il modello dei campi?
CS“La razza zingara” vuole aprire una discussione pubblica. Se in tutte le amministrazioni si sono ripetuti gli stessi problemi, è anche dovuto al fatto che non si era pienamente consapevoli di quanto stava succedendo ed è mancata una narrazione adeguata. Il libro intende proporsi come uno strumento per ogni amministratore, per essere consapevoli di quello che è stato fatto nel passato e creare una linea di discontinuità. Come associazione 21 luglio abbiamo elaborato un nostro piano e un cronoprogramma per superare il modello dei campi. Lo presenteremo in occasione delle elezioni comunali di Roma. A nostro parere la soluzione sta nell’adottare una nuova prospettiva e parlare con chi ha vissuto il problema, come dovrebbe fare ogni politica sociale. Credo che la prima cosa che il nuovo sindaco dovrebbe fare è chiedere scusa per gli errori commessi finora. Sarebbe un inizio simbolico e forte di una nuova politica con le categorie più marginali.

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