Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura

La passione in un bicchiere – Ae 65

Numero 65, ottobre 2005 Pino Ratto è l’ultimo di una generazione di celebri vignaioli, ma rifiuta le regole del mercato enologico e ha sposato la causa di Luigi Veronelli.  Il suo “dolcetto”cercatelo nelle migliori enoteche, o in un centro sociale…

Tratto da Altreconomia 65 — Ottobre 2005

Numero 65, ottobre 2005

Pino Ratto è l’ultimo di una generazione di celebri vignaioli, ma rifiuta le regole del mercato enologico e ha sposato la causa di Luigi Veronelli.  Il suo “dolcetto”cercatelo nelle migliori enoteche, o in un centro sociale

Cosa ci fa un uomo di settant’anni, discendente, per linea di madre, di Camillo Benso, conte di Cavour, fra la gente di Critical Wine? Cosa ci fa in mezzo a questo strano movimento di nuovi contadini, vignaioli anarchici, sommelier dei centri sociali, consumatori critici, che si aggira fra vigne e campagne e che organizza fiere agricolo-gastronomiche al Leoncavallo di Milano o alla Chimica di Verona?

Domanda quasi sciocca: “È che ci sto bene fra questa gente -dice Pino Ratto, produttore di dolcetto e barbera nelle colline di Ovada, terra di confine fra Piemonte e Liguria-. Ci trovo l’entusiasmo che ci vuole per fare vino, ci vedo la passione che non ha chi tratta il vino solo come un investimento e non ha un amore profondo per la terra”.

La passione e l’entusiasmo: sono parole che Pino Ratto ripete di continuo, quasi un intercalare nel suo dialetto francesizzante dell’Alto Monferrato. Ma si fa una “piccola economia” solo con l’entusiasmo? Si sopravvive, con la sola arma della passione, nel difficile e ambiguo mercato del vino?

Pino Ratto è un vignaiolo solitario. Non possiede un cellulare, non ha un computer, non sa nemmeno che cosa sia Internet. Unica concessione alla modernità è un fax scassato e impolverato. Se volete trovarlo, dovete telefonare alla “mezza”, sacra ora del pranzo, o alla sera, prima che si addormenti: orari da contadino. E ancora: non c’è un enologo nella sua cantina, Ratto si muove da solo fra le sue botti: “Non voglio un bravo tecnico -spiega-. Certo, mi farebbe fare un vino perfetto per il mercato e io commetto sicuramente degli errori, ma il vino non è solo tecnica. Deve regalare emozioni, le stesse che provo io quando lavoro in cantina”. La sua azienda non ha dipendenti, non ci sono nemmeno lavoratori stagionali. Per la vendemmia, Pino chiama a raccolta una dozzina di amici e tutto avviene a mano su una collina scoscesa e ripida, ma bellamente esposta verso Sud. La sua azienda sono cinque ettari di filari, divisi in due poderi, le Olive e gli Scarsi. Alcune viti sono vecchie. “Ce ne sono del ’35 -rivela Ratto-. Le piantò mio padre non appena comprò questa terra. In quell’anno nascevo io”.

Vittorio Ratto doveva essere un grande personaggio del Monferrato: lui si occupava di formaggi, era un “affinatore”, un mercante che stagionava le forme di parmigiano che acquistava a Carpi. “Ogni anno comprava la produzione di due grandi caseifici. Aveva scoperto un segreto semplice: doveva accorciare il cammino fra i produttori e i consumatori. Non usava mediatori, voleva un rapporto diretto con la gente. Andando direttamente dal casaro, saltava le intermediazioni e questo gli consentiva di rivendere i formaggi con un ricarico minino. Non più del 2%. E aveva un gran rispetto per tutti coloro che entravano in negozio, anche per chi comprava per pochi centesimi”. Una filiera corta, si direbbe oggi. E un’economia di relazioni, più che di soli soldi. Sono qui le radici genetiche che conducono Pino Ratto fino ai centri sociali del Critical Wine? Non so dire, ma da queste parti, fra Langhe e Monferrato, lungo gli anni del secolo scorso, è vissuta una generazione di vignaioli celebri (Bartolo Mascarello, Giacomo Bologna), uomini solidi di campagna, antifascisti, con dentro al cuore una profonda cultura “azionista”. Hanno creato grandi vini, costruito splendide vigne. Ratto, in qualche modo, appartiene a questa storia. Quasi naturale, oltre trent’anni fa, l’incontro con Luigi Veronelli, il maestro anarchico della cultura del vino in Italia. Il dolcetto delle Olive e degli Scarsi sorprese, nel 1971, anche l’irregolare guru dell’enogastronomia italiana. “Vorrei essere ricordato solo per una cosa -dice Ratto-. Per aver contribuito a dimostrare che il dolcetto è un grande vino. Che non teme confronti con il barbera e che può invecchiare felicemente”. Non è facile trovare una bottiglia di dolcetto delle Olive o degli Scarsi: bisogna andare alle fiere nei centri sociali (a Milano, a Verona, a Brescia, a Roma) oppure entrare nei più eleganti e costosi ristoranti italiani. Un bel contrasto. Chiedo dove posso comprarne a Firenze e mi risponde: “Da Pinchiorri”. Uno dei migliori e  più costosi ristoranti/enoteca d’Italia, inavvicinabile ai comuni mortali.

Per comprare il dolcetto di Ratto, insomma, devi venire sulle colline di Ovada, salire, per stradine contorte, fino alla frazione di San Lorenzo e trovare la sua casa quasi diroccata. Poi devi cercare Pino in vigna e passare un buon tempo a chiacchierare prima di portarti via un cartone di vino. Da qualche anno, paghi sei euro a bottiglia: che tu ne compri una o che tu ne prenda cento. Che tu sia Pinchiorri, un grossista giapponese o un ragazzo con i piercing. “E, giuro, non venderei a nessuno che venisse qui e mi offrisse di più -sostiene Ratto-. Veronelli aveva ragione: conoscere il prezzo sorgente può davvero evitare molte speculazioni, anche se il vino è una merce particolare, che cambia valore negli anni”.

Di nuovo, non so. Non so se Pino Ratto mi racconta tutta la verità. Si sopravvive con difficoltà sulle frontiere del mercato del vino senza rispettarne le regole. “Per trovarmi non occorre che ti spieghi come arrivare alla mia casa -mi aveva detto-. Arrivi ad Ovada e chiedi del matto. Ti sapranno indicare la strada. E matto lo sono per davvero. In Italia ci siamo dimenticati l’agricoltura, da decenni non abbiamo un piano agricolo degno di questo nome. Io rispetto la terra, il vigneto e chi compra il mio vino. Altrimenti non ce la faccio a vivere. Ma, ogni giorno, mi trovo a sfidare regole ingiuste: se non hai intermediari e una rete distributiva, se sei piccolo, non sopravvivi in questo mercato”.

Ratto non sa nemmeno quante bottiglie produce: si mette a contare le botti (barrique francesi, “che non danno sapori forti al vino”), fa tre moltiplicazioni e vengono fuori poco più di 15mila bottiglie. Fa dei calcoli con le dita. In lire: 2.500 per l’imbottigliamento, 5mila e qualcosa per il vino. “Nel resto ci devo mettere tutto. Compresa la grandine e le annate in cui butto via tutto perché il vino non mi è venuto come voglio io. Ma i pochi soldi che guadagno, mi bastano per vivere. Faccio finta di non avere debiti e non conto le ore di lavoro: faccio tutto da solo in vigna. Vorrei reimpiantare nuovi vigneti, ingrandirli. Perché le vigne durino oltre la mia vita. Anche per i figli, certo, ma soprattutto per amore verso la terra”.

Vado via con malinconia dal cascinale degli Scarsi. Lascio dietro un uomo solo, certamente pieno di guai che non mi ha raccontato, superstite, quasi ultimo, di una grande generazione di vignaioli. Mi ha fatto assaggiare bicchieri del 2001, un vino buonissimo. Mi ha fatto ascoltare sue vecchie registrazioni musicali: Pino è stato un ottimo clarinettista swing. Mi fermo a guardare i vigneti dei poderi vicini agli Scarsi o alle Olive: sono ordinati, i grappoli alti da terra, come ordinano gli enologi che Ratto detesta. E penso al disordine nella sua vigna e nella sua cantina. Ma anche alla sua passione e al suo fiume di parole. Non sa nulla di consumo critico o delle “altreconomie” possibili. Non credo che sia d’accordo su tutto quello che sostiene Critical Wine, ma vi ha trovato  un entusiasmo che il mercato del vino, lasciato in mano alle grandi aziende, ha quasi cancellato. Non so come Pino Ratto potrà resistere, solo com’è, nelle sue vigne fra le colline di Ovada. Ma arrivare a settanta anni, avere sogni, cercare ancora di piantare viti e nuovi compagni di strada per andare contro le regole rigide del mercato è ragione di uno strano orgoglio.

A dicembre Critical wine al Leoncavallo di Milano

Addio, Gino. “Resterai con noi”, dice la gente di t/Terra e libertà/Critical Wine (nome complesso, ma loro ci tengono: vedi Ae 54). Luigi “Gino” Veronelli, geniale anarchenologo, è morto lo scorso anno. Era stato il primo, e il più intransigente, militante di questo gruppo di “nuovi contadini”. Critical Wine è sopravvissuto all’assenza di un personaggio così straordinario. Rotti i rapporti con la casa editrice ereditata dalla famiglia Veronelli (che non seguirà le tracce del fondatore), Critical Wine, quasi a sorpresa, continua a crescere. Più incontri, più produttori coinvolti, più fiere e piccoli mercati autogestiti. Dal 2 al 4 dicembre, al Leoncavallo di Milano, sarà presentato il catalogo dei 25 vignaioli storici di Critical Wine, i “poeti del vino”. Scritta anche una Carta dei Vini che verrà messa a disposizione, senza essere una guida e senza assegnare giudizi, di enoteche, ristoranti, bar e centri sociali. Capisaldi rimangono l’autocertificazione dei produttori, la trasparenza di ogni filiera e il prezzo sorgente. www.criticalwine.org

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.