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Ambiente / Approfondimento

La neve è finita. In Italia è tempo di pensare a nuovi modelli di turismo

L’innalzamento delle temperature medie e l’invecchiamento della popolazione mettono in discussione l’industria dello sci. Che in Italia, però, pretende finanziamenti pubblici per l’innevamento artificiale. Anche se entro il 2050 un quarto delle stazioni sciistiche dell’arco alpino potrebbero diventare inservibili

Tratto da Altreconomia 191 — Marzo 2017
Una pista innevata artificialmente sull’Alpe di Siusi. Secondo stime della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (CIPRA), realizzare 30 centrimetri di neve costa 60mila euro per ettaro - Fabio Disconzi, www.skiforum.it/forum

Snow reliability”. Il futuro di chi lavora nel turismo invernale sulle Alpi e sugli Appennini dipende da queste due parole: l’affidabilità della presenza di un manto nevoso adeguato è, infatti, uno dei criteri in base ai quali vengono stilate le classifiche delle località (sky resort) su scala globale, e anche se il 44 per cento degli sciatori di tutto il mondo oggi disegna traiettorie sulle Alpi, questo scenario è destinato a cambiare. Entro il 2050, nell’arco di una generazione, il cambiamento climatico e l’innalzamento delle temperature medie globali potrebbero rendere “inservibili” un quarto delle stazioni sciistiche sull’arco alpino del nostro Paese (22 su 81), secondo un parametro stilato dall’OCSE che definisce “affidabili” (reliable) quelle località in grado di garantire neve fresca per stagioni lunghe almeno 100 giorni.

“Quando c’è un inverno con poca neve, come nella stagione 2016-2017, allora questi dati diventano oggetto di ‘riflessioni’, ma se solo il prossimo anno nevicherà tanto, e già a partire da fine novembre, torneremo ai ‘vecchi schemi’. Eppure chi investe nello sci da discesa dovrebbe considerare che già oggi sulle Alpi sotto i 1.000 metri di quota, in media, scende più pioggia che neve, e che entro il 2050 solo le aree sciistiche localizzate oltre i 1.800 metri sul livello del mare potranno lavorare in modo adeguato” sottolinea Andreas Pichler, alto-atesino, direttore della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (CIPRA International, www.cipra.org), una Ong che dagli anni Cinquanta opera nei 7 Stati alpini e ha sede in Liechtenstein. Almeno in Italia, però, i “vecchi schemi” sembrano prevalere, anche in una stagione -come quella in corso- in cui l’incidenza del costo dell’innevamento artificiale pesa per il 25-30% in più della media sui bilanci delle società che gestiscono gli impianti di risalita, secondo stime di Federfuni, che è l’Associazione italiana delle aziende ed enti proprietari e/o esercenti il trasporto a fune in concessione sul territorio nazionale, 150 società ubicate in buona parte delle Regioni italiane (www.federfuni.it). È una delle due realtà a rappresentare gli interessi della categoria, l’altra è l’Anef, Associazione nazionale esercenti funiviari (anef.ski), che offre invece una stima sul “valore” del settore, circa 900 milioni di euro.

Qui si ragiona così: siccome la stagione dipende dall’innevamento programmato, cioè dalla possibilità di creare striscie bianche in mezzo al verde degli alberi e dei prati, allora dev’essere lo Stato (o le Regioni) a sovvenzionare questa attività, coprendo almeno in parte i costi necessari al funzionamento degli impianti che producono neve artificiale, che riguardano l’elettricità e -se necessario- l’approvvigionamento idrico. A inizio gennaio 2017 il direttivo di Federfuni ha avanzato da Bormio (SO) questa richiesta, ribadita qualche settimana dopo anche a Roma, nel corso di una audizione informale presso la decima Commissione permanente (Industria, commercio, turismo) della Camera, che sta discutendo disegni di legge relativi a sicurezza e sport invernali.

Nella stagione in corso, il costo dell’innevamento artificiale pesa per il 25-30% in più della media sui bilanci delle società che gestiscono gli impianti di risalita

L’innevamento programmato, secondo un emendamento posto da Federfuni all’attenzione del legislatore, garantirebbe anche “il miglioramento delle condizioni di sicurezza delle [piste] stesse”, e per questo andrebbero inclusi nel finanziamento -a fondo perduto- non solo i cannoni ma anche “opere  e  condotte  di  raccolta, accumulo e adduzione delle acque, atti a consentire la produzione e la distribuzione della neve nelle quantità necessarie a garantire la sicurezza e piena fruibilità delle piste, aree e sistemi sciistici”.
Non esistono statistiche e dati certi sui costi sostenuti per l’innevamento “programmato”: sappiamo, però, che realizzare 30 centrimetri di neve artificiale costa circa 60mila euro per ettaro; che il costo della gestione del manto artificiale per una stagione, invece, è di 136mila euro all’anno per ettaro, secondo stime della CIPRA; e a fine dicembre 2016, in un’intervista al Corriere delle Alpi, Renzo Minella -che è il presidente di Anef Veneto- ha spiegato che in regione i gestori avevano speso ben 5 milioni di euro per avviare la stagione.  Oltre a ridurre le precipitazioni nevose, l’aumento medio delle temperature pone un problema anche all’innevamento artificiale: “Le reti di piste hanno ‘fame’ di innevamento veloce, da completare in pochissimi giorni utili, anche perché le temperature sono spesso sopra lo zero -spiega Luigi Casanova, portavoce di Mountain Wilderness-. Per questo, non sono più sufficienti laghi artificiali da 10 o 30mila metri cubi, e gli ultimi costruiti superano tutti i 100mila. Per quello di Montagnoli a Campiglio si arriva a 180mila”, cioè all’equivalente di 72 piscine olimpioniche.

Andrea Bigano, economista, ricercatore Senior presso la Fondazione Eni Enrico Mattei e Scientist presso la Fondazione CMCC (Centro Euro Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), ricorda che la letteratura scientifica classifica l’innevamento programmato come una “pratica di adattamento” (di breve termine) ai cambiamenti climatici, ed è convinto -lo spiega ad Altreconomia- che se oggi può ancora esistere un “fattore di convenienza nell’insistere in azioni di questo tipo, pur di mantenersi nel ‘modello turistico’ attuale, i costi sono destinati ad aumentare e in previsione avrebbe senso ‘diversificare il rischio’, mettendo in campo modelli alternativi di business, che permettano di sfrutture caratteristiche non necessariamente invernali delle stesse località, di destagionalizzare il turismo”. Bigano è uno dei curatori dei passaggi dedicati al turismo dell’ultimo rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente sugli impatti sociali del cambiamento climatico, “Climate change, impacts and vulnerability in Europe 2016”, pubblicato il 25 gennaio 2017 con finanziamento del progetto ETC/CCA-European Topic Centre on Climate Change impacts, vulnerability and Adaptation, coordinato dal CMCC.

Nel paragrafo sul turismo invernale e montano si fa riferimento a un accorciamento della stagione sciistica stimato in 4-6 settimane in corrispondenza di un aumento medio delle temperatura di un grado centigrado (non è fantascienza: nel 2016 la temperatura media globale è stata di 0,99°C superiore rispetto a quella registrata tra il 1880 e il 2015). “Tra gli operatori, salvo eccezioni virtuose, manca una visione di medio-lungo termine -sottolinea Bigano-: per questo tendono ad implementare misure tecniche, come l’innevamenteo artificiale, invece di modificare l’offerta per cercare di spostare anche la domanda”.
A febbraio 2017, CIPRA ha diffuso un position paper dal titolo evocativo, “Solstice in winter tourism”: è un invito a una moratoria a nuovi interventi infrastrutturali (impianti di risalita, bacini per l’innevamento artificiale) specie nelle zone ancora wild, quelle dove potrebbe essere implementato un modello di turismo responsabile e sostenibile. L’Italia è già, del resto, il Paese alpino con il maggior numero di sky areas -349, contro le 325 della Francia-, ma attira meno della metà dei visitatori del vicino Transalpino, circa 25,8 milioni contro oltre 55 milioni (i dati fanno riferimento alla stagione 2014-2015, e l’Italia segna un meno 15% rispetto all’inverno 2009-2010). Oggi lo sci da discesa attira circa l’8% degli italiani, e questo dato rappresenta un campanello d’allarme per chi immagina di poter reiterare lo stesso modello di turismo invernale: “Non esistono solo rischi climatici, ma anche quelli demografici -sottolinea Andrea Pinchler di CIPRA-: riguardano lo spopolamento, ma anche l’età media degli sciatori”. Su tutto l’arco alpino, inoltre, la durata media dei soggiorni è in discesa: tra il 2001 e il 2010 segnano un meno 11,8%, a 3 giorni e mezzo, secondo i dati diffusi dalla Convenzione delle Alpi nel rapporto 2015 dedicato al “Turismo sostenibile nelle Alpi”. La Convenzione non è una Ong ma un trattato internazionale tra i Paesi della regione.
In Austria queste dinamiche sono oggetto di studio, e di pubblicazioni su riviste scientifiche: vengono analizzati i bilanci delle società che gestiscono i comprensori turistici, e valutati i possibili benefici apportati da nuovi investimenti; si è misurato che gli effetti demografici -l’invecchiamento della popolazione- avrà un impatto negativo sul turismo invernale nella prima metà di questo secolo, assestando un gancio prima che il cambiamento climatico sferri il pugno da knock-out.

L’Italia è il Paese alpino con il maggior numero di sky areas -349, contro le 325 della Francia-, ma attira meno della metà dei visitatori: circa 25,8 milioni contro oltre 55 milioni

In Italia, invece, la scienza del clima non riesce a dialogare con l’industria dello sci, ma non viene ascoltata nemmeno dalle istituzioni, quando si tratta di investimenti sugli impianti. Un esempio è il protocollo siglato a fine novembre dalle Regioni Emilia-Romagna e Toscana con la presidenza del Consiglio dei ministri, che ha promesso un finanziamento a fondo perduto per 20 milioni di euro per la realizzazione di un nuovo impianto di risalita verso il lago Scaffaiolo e la creazione di un comprensorio sciistico tra il Monte Cimone (MO), il Corno alle Scale (BO) e l’Abetone-Cutigliano (PT), tutte località dell’Appennino tosco-emiliano. Basterebbe però leggere il nuovo “Atlante climatico  dell’Emilia-Romagna 1961-2015”, pubblicato dall’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia (ARPAE, www.arpae.it) a inizio febbraio, per capire che nei tre Comuni emiliani coinvolti le temperature medie nel periodo 1991-2015 siano state superiori a quelle registrate tra il 1961 e il 1990 rispettivamente di 0,8, 0,9 e 1 grado centigrado. E che in due Comuni su tre le precipitazioni siano calate. “Non è possibile stabilire in che misura queste siano ancora nevose”, sottolinea Vittorio Marletto, dirigente ARPAE: uno studio del genere dovrebbe essere commissionato e finanziato all’ente; forse avrebbe senso farlo, prima di realizzare un progetto datato 1963. Legambiente Emilia-Romagna, che è critica in merito all’intervento, ha parlato di “accanimento terapeutico”, mentre la locale sezione del Club Alpino Italiano sottolinea come l’82% delle presenze turistiche sull’Appennino riguardino il “turismo verde”, quello estivo. Per quanto riguarda il turismo, la Strategia nazionale per le aree interne (SNAI), il programma per i territori periferici -come Fiumalbo e Abetone- invita a destagionalizzare. “Molti enti ne sono consapevoli. È un tema che emerge sulle Alpi e sugli Appennini” spiega Giovanni Carrosio, uno degli esperti SNAI. Qui, però, ci sono risorse da investire, e ogni programmazione salta. I 20 milioni di euro -spiegano dall’ufficio del ministro dello Sport, Luca Lotti- sono a disposizione nel bilancio della presidenza del Consiglio. Un “portafogli” che non passa per il vaglio del Parlamento.

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