Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Altre Economie

La natura sui muri – Ae 95

Scorze di agrumi e cera d’api, olio di lino, uova e latte sono gli ingredienti delle pitture naturali, quelle che non contengono derivati del petrolio né solventi tossici. La riconversione, bella e possibile, della categoria “colori e trattamenti” è accessibile…

Tratto da Altreconomia 95 — Giugno 2008

Scorze di agrumi e cera d’api, olio di lino, uova e latte sono gli ingredienti delle pitture naturali, quelle che non contengono derivati del petrolio né solventi tossici. La riconversione, bella e possibile, della categoria “colori e trattamenti” è accessibile in termini di costi, come dimostra l’esperienza della marchigiana Spring Color


“Boicottando il petrolio si globalizzano la salute e la pace”. È scritto sul sito di Spring Color, cinquantenne azienda marchigiana di “pitture naturali per l’edilizia non tossiche e senza petrolio”. Uno dei principi guida del suo titolare, Roberto Mosca, è: uscire dalla petrolchimica. Che ci assedia affacciandosi anche dai muri e dai mobili: un milione di tonnellate fra pitture murali, vernici per legno o altri materiali, trattamenti vari per superfici sono spalmati ogni anno negli interni ed esterni d’Italia. Che le resine, i solventi e i biocidi tossici contenuti facciano male alla salute e all’ambiente lo si sapeva. Basti pensare alle malattie professionali degli imbianchini e dei lavoratori delle fabbriche di vernici: anche il papà di Roberto morì di tumore professionale, e fu questo a determinare, negli anni 90, la svolta al naturale della Spring Color. Del resto nessuno si sognerebbe di dormire in una casa con mobili o pareti riverniciate di fresco: fra gli oltre ottocento composti nocivi esalati da molte case (a produrre la cosiddetta “sindrome dell’edificio malato”), la categoria “colore e trattamenti” fa la sua parte.

Sul lato dell’ambiente il nostro recente passato ci ricorda l’Acna di Cengio (nella foto, vedi Ae 71). L’Azienda coloranti nazionali e affini, produttrice di solventi, pigmenti e resine derivati dal petrolio, dal savonese riuscì in decenni di attività impunita a rendere lunari intere vallate agricole piemontesi, devastando il fiume Bormida. Ricordi d’infanzia di piemontesi che valicavano l’Appennino per andare al mare in Liguria: un corso d’acqua di colore violaceo. Già Beppe Fenoglio scriveva: “Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, che ti mette freddo nel midollo. Sulle sue rive non cresce più un filo d’erba”. L’Acna produceva ed esalava circa 280 categorie di composti chimici dei più pericolosi, con  milioni di tonnellate di fanghi tossici che in parte finirono, pare, nella discarica di Pianura nel campano. Iniziò a essere smantellata solo dopo che il 23 luglio del 1988 dalle sue ciminiere fuoriuscì una nube di anidride solforosa. Da allora è in corso la bonifica -ma si concluderà mai?- per raschiar via quel che si può dei fanghi mortali. Quante Acna ci sono nei Sud del mondo, da cui importiamo anche colori e vernici? Roberto Mosca insiste sulla fuoriuscita da un fossile sistema petrolchimico, oltre che sulla salute di lavoratori e consumatori. Lavora insieme ai suoi dieci collaboratori e con la sua bella mamma, 78enne, che all’inizio chiamava “pappette macrobiotiche” i composti che via via inventavano e adesso dice: “Sì, sono contenta di questa svolta, bisogna sempre andare avanti, no?”.  Cosa significa produrre “pitture naturali che non contengono petrolio, né solventi cancerogeni né componenti non biodegradabili”? Significa che la fabbrica (nella foto) è un grande laboratorio colorato (le prove si fanno lì, sui muri) senza rumori, senza odori idrocarburici e dove ogni vasetto o sacchetto o secchiello, ad aprirli, esalano profumi di alimenti commestibili o piante o fiori. Per forza: le materie prime, ricavate da antiche ricette o di nuova invenzione, sono terpene di scorze d’agrumi e cera d’api, olio di lino e olio di canapa, uova e latte, calce e canapulo, aceto e caolino, amido e sabbie, terre colorate e piante coloranti. Ecco la riconversione bella e possibile di un segmento dell’edilizia, uno dei settori a maggiore impatto ambientale e a maggiore uso di materie prime non rinnovabili e inquinanti, dal cemento in avanti.

Domanda d’obbligo: è un consumo da nicchie di ricchi nel Nord del mondo? No, triplamente no, risponde Roberto. Intanto, i costi: “Dico sempre che il maggior prezzo degli alimenti biologici rispetto a quelli convenzionali è maggiore del maggior prezzo delle tinte naturali rispetto a quelle di sintesi chimica. Sono convinto che fra qualche anno, grazie al picco dei fossili, le nostre tinte costeranno meno di quelle petrolchimiche”. Dunque per un consumo durevole (non quotidiano come l’alimentazione) conviene spendere un po’ di più e salvaguardare salute, ambiente e clima. Alla fine non si spende di più: i colori non ammuffiscono perché traspirano, durano di più, anziché screpolarsi invecchiano nobilmente come i vecchi palazzi e mobili. E nella civiltà postpetrolifera prossima ventura quel che adesso è l’eccezione dovrà essere la norma, nel Nord come nel Sud del mondo.

I vantaggi ecosociali non finiscono qui, spiega Roberto Mosca: “Per fare colori naturali sono più adatte le piccole aziende, la tecnologia non è complicata, non occorrono grandi macchinari”;  e “c’è più occupazione che nelle industrie di coloranti derivati dal petrolio”. Infine “si potrebbero fare anche senza elettricità”. Come mai allora il settore non si converte tutto, anche prima della fine del petrolio? Perché le multinazionali del ramo stenterebbero a riconvertirsi. Il salto sarebbe agevolato se nei capitolati d’appalto degli enti pubblici i materiali naturali e senza petrolio fossero resi obbligatori, e se anche i pittori o imbianchini si rendessero conto che è nel loro interesse usare tinte, non veleni.



Una legge volatile

Istituzioni e ricerca non favoriscono una colorata fuoriuscita dalla petrolchimica. Una direttiva europea in materia di solventi recepita dall’Italia, ad esempio, introduce limitazioni all’impiego dei Cov (composti organici volatili), sostanze che provocherebbero “emissioni dannose alla fascia di ozono troposferica”. Si catalogano come Cov tutte le sostanze che bollono al di sotto dei 250 gradi e che evaporando non restano nel supporto. Il punto è che si fa di tutt’erba un fascio e non si considera affatto la vita media in atmosfera. Così la trementina di gemma o il d-limonene, solventi naturali che scompaiono molto velocemente, sono trattati alla stregua del clorofluorocarburi che si dimezzano in 4.500 anni. Il paradosso è denunciato dall’azienda Spring Color: le pitture naturali possono contenere dei Cov. Si tratta dell’aceto, dell’alcol, degli oli essenziali. L’olio di lino e il latte sono sfuggiti per un pelo. Invece si possono fregiare delle diciture “esenti da Cov” vernici o pitture all’acqua formulate con resine petrolchimiche prodotte tramite polimerizzazione di monomeri cancerogeni, suscettibili di sviluppare diossina e altre sostanze pericolose in caso di incendio o di smaltimento in inceneritore. Eppure le solerti norme europee le ignorano. Altra situazione inquietante: le università pubbliche sembrano disponibili solo ad avviare ricerche finanziate e ignorano invece idee interessanti come quella del ricercatore veneto Gilberto Quarneti, che con Roberto Mosca ritiene possibile la calcinazione dei gusci d’uovo (250mila tonnellate prodotte in Italia, un rifiuto da smaltire ingente, finché non spariranno gli allevamenti e non sarà domani). Cotti con i residui dei cereali, i gusci farebbero un’ottima calce. Ma l’università preferisce far ricerche sulle capacità di assorbimento dell’anidride carbonica da parte di certo cemento. “Che confusione: il cemento emette CO2, semmai gli si può far assorbire il particolato, che è cosa ben diversa!” rettifica Quarneti. La calce è invece l’unica materia che assorbe anidride carbonica (si riprende quella che ha emesso in fase di cottura).



Il “fai da te” ecologico

Estate: è tempo di verniciare mobili o infissi, rinfrescare il colore del bagno o della cucina. Un segmento della bioedilizia è alla portata di tutti. Una mano di colore ed è già cromoterapia. Ma per non avvelenarci e non avvelenare, le sostanze naturali si impongono (insieme a un po’ di abilità se vogliamo far da noi anziché rivolgerci a un professionista). Sono in commercio alternative ecologiche per tutti i prodotti di trattamento e finitura che immaginiamo: malte, tempere, pitture lavabili (ad esempio con grassello di calce, terre coloranti e leganti organici naturali tipo uovo, latte e cera), smalti e vernici (con olio di lino e pigmenti vegetali o terre), e poi antitarli, antibatterici, impregnanti per esterni e interni e pavimenti, antiruggine, collanti, protettivi del legno, balsamici, svernicianti.

L’effetto ottico è ottimo. Quello olfattivo anche. Usare colori naturali è fare aromaterapia. Ad esempio qual è il sostituto dell’acquaragia, famigerato diluente dal sicuro effetto emicrania? Il terpene, secreto dalla buccia degli agrumi. Così colorando un mobile con pigmenti diluiti al terpene, per giorni aleggerà in casa un profumo di arance candite.

Le pitture e i prodotti di trattamento naturali si trovano presso i negozi di bioedilizia o “ecosmorzi”, o chiedendo all’Anab (Associazione nazionale architettura bioecologica, www.anab.it) e all’Inbar (Istituto nazionale di bioarchitettura, www.bioarchitettura.it). L’azienda tutta italiana Spring Color (www.springcolor.it) di Castelfidardo (Ancona) offre sul suo sito anche una guida all’uso.

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.