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La lotta dei braccianti di Nardò

Un’antica masseria su cui campeggia la scritta “Ingaggiami contro il lavoro nero” e intorno tende, qualche albero, una cisterna che distribuisce acqua potabile. Entriamo percorrendo la strada sterrata, costeggiata da due muretti su cui asciuga il bucato appena fatto. Siamo…

Un’antica masseria su cui campeggia la scritta “Ingaggiami contro il lavoro nero” e intorno tende, qualche albero, una cisterna che distribuisce acqua potabile. Entriamo percorrendo la strada sterrata, costeggiata da due muretti su cui asciuga il bucato appena fatto. Siamo alla Masseria Boncuri, zona industriale di Nardò, provincia di Lecce, dove molti lavoratori africani e magrebini sono arrivati anche quest’anno per la raccolta di angurie e pomodori. Qui ha preso vita il primo sciopero auto organizzato dai braccianti stagionali stranieri che non potevano e non volevano più sottostare ai soprusi dei caporali.

È successo il 31 luglio scorso: i caporali chiedono ai lavoratori di fare una selezione tra i pomodori raccolti, prima di metterli nel cassone e fanno il prezzo di €3,50/cassone. Una richiesta inaccettabile sia per il prezzo troppo basso, sia perché il lavoro del bracciante è basato sulla sua velocità e dover selezionare durante la raccolta significa riempire meno cassoni, significa portare a casa meno soldi. I braccianti chiedono quello che sarebbe il giusto compenso secondo il contratto provinciale – €6/cassone – e davanti al rifiuto dei caporali interrompono la raccolta e tornano alla Masseria Boncuri. I caporali hanno cercato una mediazione proponendo prima €4, poi €4,50/cassone, ma i braccianti sono stati fermi nella loro richiesta.

È duro il lavoro del bracciante in Salento. Dalle prime ore del mattino al tramonto si sta con la schiena piegata sotto il sole cocente. Ma è ancora più dura perché ci sono i caporali che dettano condizioni impossibili. “Il caporale vuole €5 per trasportarci al campo – racconta Ivan, uno dei leader della protesta – saliamo su un pulmino da 10 posti ma siamo in 30, tutti ammassati. Il caporale ci chiede €3,50 per il panino del pranzo e €1,50 per un succo di frutta. Sei praticamente obbligato ad andare col pulmino e a comprare il cibo, altrimenti non lavori”. Ivan ci dice che in media un lavoratore può caricare 6/7 cassoni di pomodoro, ma parecchie volte si ferma a 4. Fate voi i conti del guadagno di un bracciante e confrontatelo con quello che guadagna il caporale: in media €150.000 a fine stagione. Per non parlare dei guadagni delle aziende.

I braccianti hanno denunciato i caporali, mostrando i finti contratti di ingaggio, ma i controlli sul campo non sono arrivati. Allora davanti all’ennesimo sopruso hanno incrociato le braccia. L’hanno fatto tutti, compatti nel tornare in Masseria e nel riunirsi in assemblea la sera per mettere nero su bianco le loro rivendicazioni: il rispetto dei compensi definiti dal contratto provinciale – €6/10 a cassone a seconda della varietà di pomodoro – controlli nei campi da parte delle autorità competenti, l’incontro diretto tra domanda e offerta grazie anche all’eliminazione del caporalato.

Lo sciopero è proseguito, ci sono stati incontri alla Prefettura di Lecce e poi in Regione a Bari. I braccianti hanno ottenuto il finanziamento del trasporto al campo da parte del Comune e l’istituzione di liste di prenotazione per permettere alle aziende agricole di ingaggiare direttamente i lavoratori. Ivan ci dice che alle liste per l’estate prossima si sono già iscritti circa 200 lavoratori. Ma tutto questo non servirà a nulla se continueranno a esserci i caporali, se le aziende non decideranno di trattare direttamente con i lavoratori. E le aziende fino ad oggi non si sono fatte vedere, se non con rappresentanti che ignoravano – facevano finta di ignorare – la situazione del caporalato. “Nel campo alla fine c’è stato un grande senso di scoraggiamento – racconta Ivan – c’è una totale mancanza di fiducia nelle istituzioni perché il caporalato continua ad esistere. Il nostro sciopero è stato importante, la nostra auto organizzazione è stata la nostra forza, ma i caporali si sentono potenti e se i datori di lavoro non intervengono i braccianti penseranno di aver scioperato per niente”.

Scioperare non è stato semplice. In molti hanno finito la stagione senza aver guadagnato nulla. C’è chi doveva inviare il denaro alla propria famiglia, chi deve affrontare le spese quotidiane di affitto, assicurazione della macchina, spesa, chi come Ivan deve pagare la retta dell’Università che frequenta a Torino. C’è chi è arrivato da poco a Lampedusa e da lì è partito alla ricerca di un lavoro. Scioperare ha significato non avere denaro per la sopravvivenza quotidiana, per questo motivo i braccianti con il sostegno di Finis Terrae e le Brigate di Solidarietà Attiva (BSA) – i due gruppi di volontari presenti alla Masseria Boncuri – hanno istituito una cassa di resistenza che ha portato al campo un po’ di cibo, distribuito durante lo sciopero.

Il 1 settembre il campo della Masseria Boncuri chiude. Gianluca Nigro di Finis Terrae ci dice che sono presenti ancora circa 150 lavoratori. Il Comune di Nardò ha messo a disposizione del denaro per agevolare le partenze: qualcuno tornerà nella città in cui abitualmente vive, qualcuno raggiungerà altri campi per continuare nella raccolta di frutta e ortaggi. Il campo chiude ma la protesta non si ferma. Prosegue la campagna “Ingaggiami contro il lavoro nero”, avviata nell’estate 2010 con lo scopo di informare e sensibilizzare i lavoratori rispetto al fenomeno del lavoro sommerso e alla normativa contrattuale vigente in agricoltura. Finis Terrae e le BSA si sposteranno su territori simili e continueranno a rimboccarsi le maniche per portare avanti il progetto.

Il Comune di Nardò, nonostante le risorse economiche sempre minori a causa dei tagli agli enti locali, ha fatto la sua parte. I volontari di Finis Terrae e delle BSA hanno passato i mesi estivi alla Masseria Boncuri gestendo i servizi messi a disposizione dei braccianti, dall’assistenza medica a quella legale allo sportello informazioni, condividendo ogni giorno la vita del campo. “Quello che serve ora – ci dice Francesco Piobbichi delle BSA – è l’intervento delle imprese locali. Le aziende hanno legami con i poteri istituzionali che lo sciopero dei braccianti è riuscito a rompere. La loro lotta apre un processo, obbliga le strutture italiane a rivedere le loro azioni. Le imprese locali devono offrire un’accoglienza degna ai lavoratori, devono partecipare alla politica di accoglienza e non aspettare che siano altri a farlo, perché sono loro a guadagnare denaro dal lavoro dei braccianti”.

Nardò è l’esempio di come la consapevolezza dei propri diritti e un supporto continuo e concreto possano portare i lavoratori a ribellarsi al sistema di schiavitù presente in gran parte dell’agricoltura italiana. Sapere di avere dei diritti, sapere che c’è qualcuno che ti sostiene nella rivendicazione ha portato i braccianti di Nardò ad auto organizzarsi, a confrontarsi tra loro, a cercare un dialogo con le autorità, a decidere cosa non accettare della loro condizione di lavoratori sfruttati. I braccianti di Nardò con la loro lotta hanno contribuito con forza al decreto legge riguardante il caporalato, che introduce una reclusione da 5 a 8 anni e una multa parti a 1.000 o 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Come dice Francesco Piobbichi “le lotte le vinci sul campo”. A noi l’obbligo di non lasciarli soli.

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