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Cultura e scienza / Opinioni

La lezione di Concetto Marchesi contro la perdita di senso dell’università

Concetto Marchesi (1878-1957), antifascista e politico italiano, è stato membro della Costituente

Gli atenei devono creare coscienza civile e non essere elitari. Hanno radici nell’antifascismo della Costituzione. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 241 — Ottobre 2021

Un passaggio della “Relazione del deputato Marchesi Concetto sui principi costituzionali riguardanti la cultura e la scuola” presentata all’Assemblea costituente nel 1946 mi pare ancora, dopo 75 anni, terribilmente attuale. Marchesi prova a rispondere alla domanda più terribile: come aveva reagito l’università italiana all’avvento del fascismo. “Il mondo della cultura e della scuola -specie in questo ultimo quarto di secolo- ha dato ai giovani un senso di soffocazione: […] veniva formandosi il tecnico, il giurista, il letterato, lo storico, dentro un’orgogliosa clausura che badava a dar pregio allo strumento e alla persona che lo adoperava e all’utilità personale che ne veniva anzi che al fine superiore cui lo studio è diretto, cioè alla scienza intesa come perpetua ricerca di un bene comune. Così la cultura più saliva in alto, più si estraniava dalla vita popolare e nazionale; diveniva interessata occupazione di laboratori, di biblioteche, di singoli istituti dove si curava l’addestramento del conoscitore, dell’esperto, dell’erudito, dello scolastico, di coloro che avevano l’unica sollecitudine di distinguersi dalla massa degli umili per entrare in quella dei profittatori. Così la cultura e la scienza si venivano raccogliendo e differenziando in una ricerca di posti distinti da cui si potesse comandare agli altri e abusare degli altri. Invece di una comunione spirituale si cercò l’autorità: e l’indifferenza politica e morale divenne il gelido manto della dottrina. E quando l’enorme crisi del mondo scoppiò e avvenne l’urto immane delle forze in conflitto, quei maestri usciti all’aperto non seppero né vedere né ricercare né scoprire più nulla, e non ebbero più una parola da dire ai discepoli che si avviavano da soli verso la salvazione o la morte. Perché è avvenuto tutto questo? […] Per mancanza di coscienza civile. Soltanto una coscienza civile, qualunque essa sia, può far sentire la necessità di dare il più esteso valore all’opera individuale”.

Questa analisi della perdita di senso dell’università è ancora terribilmente attuale. Viviamo tempi in cui non è per nulla superfluo ricordare che l’università italiana è doppiamente antifascista: lo è per la sua natura libera e umana di università, lo è per la sua adesione incondizionata alla Costituzione antifascista della Repubblica. Per questo è importante ricordare che, quando nel 1931 fu reso obbligatorio il giuramento di fedeltà al fascismo, qualcuno disse di no: e non giurò.

Negli anni Sessanta si disse che i nomi di quelli che non giurarono si sarebbero dovuti leggere a voce alta all’inizio di ogni lezione universitaria: aggiungendo ironicamente che, d’altra parte, non ci sarebbe voluto molto tempo. Erano solo dodici nomi: sui 1.200 cattedratici, solo dodici professori dell’università italiana ritennero di non poter giurare di “esser fedele al regime fascista […] e di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al regime fascista”. Non giurarono e dovettero lasciare le loro cattedre: Giorgio Levi della Vida, Gaetano De Sanctis, Ernesto Buonaiuti, Vito Volterra, Edoardo Ruffini, Bartolo Nigrisoli, Mario Carrara, Francesco Ruffini, Lionello Venturi, Giorgio Errera, Fabio Luzzatto, Pietro Martinetti.

Ricordarli significa ricordare che “la ricerca della verità scientifica dovrebbe essere sacra per ogni governo statale” (sono parole della lettera con cui Albert Einstein provò a convincere il governo fascista a rinunciare al giuramento). E che si può sempre dire di no. E che, in certi casi, si deve.

Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra

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