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Altre Economie

La legge del più forte

Dopo 3 anni d’indagine, l’Antitrust descrive i meccanismi che permettono alla grande distribuzione di gravare su produttori, trasformatori e consumatori —

Tratto da Altreconomia 153 — Ottobre 2013

Nella grande borsa dei prodotti alimentari che finiscono sui banconi del supermercato vige la legge del più forte. Questo scrive, con altre parole, l’Antitrust (l’Autorità garante della concorrenza e del mercato) quando parla di “un aumento del potere di mercato della grande distribuzione organizzata nei rapporti commerciali con i fornitori, anche attraverso un rafforzamento del ruolo delle centrali di acquisto, i cui effetti si riverberano non solo sulle condizioni economiche nel mercato a monte dell’approvvigionamento ma anche in quello a valle delle vendite, con possibili ripercussioni a danno dei consumatori finali”. Per capirci: i fornitori sono le aziende che producono o trasformano alimenti -le marche che troviamo sugli scaffali, ma non solo-, i consumatori siamo noi e la grande distribuzione i supermercati. Il virgolettato è tratto da un’indagine dell’Antitrust, la prima a descrivere -numeri alla mano- meccanismi intuitivi già noti ai lettori di Ae, e a certificare che l’aumento del potere di mercato della grande distribuzione organizzata (Gdo) nei rapporti commerciali con i fornitori non va solo a danno dei fornitori stessi, ma ha ripercussioni negative anche nei confronti dei consumatori. È stata pubblicata a ridosso di ferragosto, ed passata inosservata dai “grandi” giornali. Ma il suo contenuto è dirompente. Al punto che è stato complicato per Altreconomia discuterla con i protagonisti del settore: le grandi catene, prime fra tutte Coop ed Esselunga, non hanno voluto commentare, mentre le organizzazioni dei produttori industriali, come Federalimentare, non hanno risposto alle richieste di interviste avanzate.
L’“Indagine conoscitiva sul settore della Gdo” ed è stata avviata tre anni fa (vedi Ae 123), e ha coinvolto un campione di 320 imprese agroalimentari. Fa emergere un quadro inquietante dei rapporti fra produttori e catene. Le tendenze sono riportate sempre al condizionale nelle 213 pagine scaricabili dal sito www.agcm.it, ma affermate chiaramente. Come quella che il consumatore non ci guadagna quasi niente se i prezzi a  monte -quelli riconosciuti a produttori e trasformatori- sono più favorevoli alla Gdo. “Le maggiori entrate -scrive l’Antitrust- ottenute […] grazie all’imposizione della vendita dei pacchetti non produrrebbero benefici al consumatore in termini di riduzione del prezzo finale di vendita, essendo anche formalmente escluse dal computo dei costi di acquisto: esse verrebbero invece utilizzate per finanziare la crescita delle catene distributive e/o per remunerare il loro specifico rischio di impresa”.
Significa che i fornitori vengono pagati sempre meno perché costretti ad accettare dei “pacchetti” di servizi venduti da chi compra la merce, mentre a valle i prezzi al consumatore salgono. L’Antitrust ha certificato che i trend dei prezzi al consumo diversi da quelli dei prezzi di fornitura.
“Quando nel 2008 i prezzi delle materie prime agricole sono aumentati di colpo  -spiega Fabio Del Bravo, analisti dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea)-, a valle, cioè al consumo, sono aumentati, ma nel momento in cui sono scesi, sui banconi del super hanno continuato a crescere”. Questo succede nonostante il grado di concentrazione della Gdo in Italia sia molto inferiore rispetto ad altri Paesi. I primi quattro operatori –Coop, Conad, Selex ed Esselunga– controllano circa il 42% del mercato, mentre nel Regno Unito o in Germania i primi tre arrivano al 60%. Per superare questa “scarsa concentrazione”, da un paio di decenni le catene della grande distribuzione hanno creato dei secondi livelli di unione: le cosiddette centrali d’acquisto. Sono organizzazioni che trattano i contratti quadro coi fornitori per conto di più catene. I contratti quadro valgono un anno e sono poi dettagliati all’interno delle singole catene in fase di acquisto della merce. Nel 2012 in Italia hanno operato 7 centrali. Aggregano 21 grandi catene e controllano il 78% del mercato. L’indagine ha svelato che nelle “supercentrali” si decidono le sorti di circa metà degli acquisti (il fatturato della grande distribuzione in prodotti alimentari ha raggiunto nel 2012 i 117 miliardi di euro, il 72% del totale delle vendite, secondo Federdistribuzione).
In alcune province la supercentrale più importante detiene quote che arrivano fino al 60%, “andando a rafforzare -scrive l’Autorità- significativamente la quota già elevata detenuta singolarmente dal primo operatore”.
Le rivalità fra le grandi catene si superano al tavolo della contrattazione, insieme e con più forza. La più importante è Centrale Italiana, una società consortile formata da Coop Italia (69%), Despar Servizi (25%), Il Gigante (5% attraverso la società consortile Gartico), Discoverde (1%) e Sigma, che funziona da vero e proprio capofila con un mandato a contrarre irrevocabile, valido sino alla durata della partecipazione in Centrale Italiana. Consultata da Ae per capire meglio le pratiche messe in atto nei confronti dei fornitori, Coop Italia ha declinato l’invito a parlare dal momento che il tema è oggetto di un approfondimento interno. La seconda centrale in ordine di grandezza è Sicon, che controlla il 13% del mercato e ha come capofila Conad. Sono contenitori a geometrie variabili. Spesso i gruppi della distribuzione escono da una centrale per entrare in un’altra, mentre Esselunga ha recentemente abbandonato il sistema che era nato in origine per rispondere alla pressione concorrenziale dei grandi gruppi internazionali.
“In Italia le supercentrali sopperiscono al fatto che la grande distribuzione è poco concentrata rispetto ad altri Paesi -spiega Luca Pellegrini docente di Marketing dello Iulm-. Queste concentrazioni negli acquisti sono tutte state scrutinate dall’Antitrust quando sono nate, ma da quel momento l’Autorità è stata piuttosto ‘liberale’ nel fare andare avanti queste supercentrali. Ma ora ripone attenzione sul fatto che possano avere effetti in qualche modo collusivi”.
L’Autorità parla di “una vasta area di conflittualità” tra le parti contraenti, collegata al fenomeno del trade spending. Significa che tramite le supercentrali di acquisto vengono inclusi nei contratti dalla Gdo servizi espositivi, distributivi e promozionali in genere. Questi servizi gravano in media per circa il 40% sull’insieme delle condizioni economiche trattate.

Dentro ai contratti vengono inserite anche “voci di sconto” e “voci di contribuzione”, che incidono sui prezzi di listino o vengono pagati direttamente dal fornitore quando sono extra-fattura. Insieme pesano in media per circa il 24% del fatturato realizzato dal fornitore con la catena cliente. Il peso dei ricarichi è maggiore sui prodotti secchi e confezionati e minore per quelli freschi e freschissimi, mentre i prodotti locali sono quasi sempre esclusi dalle contrattazioni delle supercentrali. Che funzionano anche da centrali di vendita, assicurando un secondo margine di ricavo oltre a quello che è rappresentato dalla differenza fra il prezzo di vendita al pubblico e il costo d’acquisto. Gli sconti sono di vario tipo: incondizionati -concessi dal fornitore per esempio a fine anno-; di fine anno a target -riconosciuto dal fornitore ai clienti che raggiungono certi obiettivi di fatturato o volume di vendita-; logistici; premi finanziari -qualora si rispettino i tempi di pagamento previsti però dalle legge; per l’acquisto di una combinazione di prodotti; recupero marginalità. Il ventaglio di quelle che vengono definite contribuzioni è altrettanto ampio: promo pubblicitari e operazioni di volantino, esposizione preferenziale, gestione, presidio e mantenimento dell’assortimento -quando si garantisce al fornitore il mantenimento di una determinata gamma minima di prodotti o di referenze-, fee di accesso al fornitore a determinari scaffali per prodotti nuovi, inserimento nel listino prodotti, operazioni di co-marketing, nuove aperture o cambi insegne e altre attività promozionali in fiere, manifestazioni ed eventi. Le voci di contribuzioni pesano in media per l’11,4%, ma in alcuni casi arrivano anche a rappresentare il 60% del valore della merce.
Fra i punti critici denunciati dai produttori nel questionario somministrato dall’Antitrust ci sono una serie di pratiche, tra cui il condizionamento dell’acquisto dei prodotti alla vendita di pacchetti di servizi di cui i produttori non hanno necessità. Il prezzo imposto per questi servizi non dipenderebbe dalle caratteristiche del prodotto, ma dalla forza economica dell’impresa. “Risulterebbe -scrive l’Autorità- quindi inferiore per le imprese multinazionali e i grandi fornitori nazionali rispetto alle imprese di dimensione medio-piccola, comportando un’ingiustificata discriminazione tra le imprese fornitrici”.

“Emerge chiaramente uno sbilanciamento: in alcuni casi rimane schiacciata l’industria di trasformazione, in altri è l’industria di trasformazione a schiacciare l’agricoltura -commenta Del Bravo dell’Ismea-. In fase di raccolta dei questionari per elaborare la ricerca (a cui Ismea ha collaborato, ndr) abbiamo registrato fra i produttori un po’ di paura e di diffidenza nel rispondere. Ed anche una difficoltà tecnica dal momento che spesso le clausole che vengono inserite nei contratti non sono sempre facili da codificare”.
La merce diventa un pretesto per trovare “finanziamenti”, continuare ad investire e ingrandirsi. Da uno studio del 2011 della Banca centrale europea -“Structural features of distributive trades and their impact on prices in the euro area”- emerge una realtà simile. Condotto su 6 Paesi, tra cui il nostro, mostra come non esista un nesso fra l’elevato livello di concentrazione a livello d’acquisto e la riduzione dei prezzi. Fra le altre conseguenze vi è il fatto che la richiesta di contribuzione spesso viene effettuata dalle catene anche in modo retroattivo, comportando modifiche unilaterali delle condizioni generali di acquisto. Infine emerge un altro aspetto: spesso non vi sarebbe corrispondenza tra importi richiesti e controprestazioni fornite, e la verifica è difficile specie per i piccoli produttori. Le alternative sono poche: quasi tutti i distributori sono soci di una supercentrale. Così i produttori finiscono per recepire la maggior parte delle richieste: il 57% le accetta spesso o sempre, e solo il 5% non le accetta mai. Le “ritorsioni” -così le chiama l’Agcm- sono diverse e avvengono nel 74% dei casi in cui ci sia qualche opposizione alle condizioni proposte: fra di esse il cosiddetto delisting, che altro non è che l’esclusione dalla lista dei fornitori -il 62% dei rispondenti al questionario delle ricerca afferma di averlo subito-, oppure un peggioramento delle condizioni di acquisto per il periodo successivo -nel 59% dei casi-. Nel 47% sono arrivate entrambe.  I termini di pagamento poche volte vengono rispettati, nonostante l’articolo 62 della legge 27/2012 che dovrebbe tutelare i produttori sulla base di tre principi -termine massimo entro 60 giorni, 30 per i prodotti deperibili, obbligo di formalizzare tutte le parti essenziali del contratto e disincentivo alle pratiche commerciali sleali come gli sconti incondizionati. “Nella contrattazione -spiega ancora Pellegrini dello Iulm- ognuno cerca di massimizzare il profitto. Uno dei modi è allungare i tempi di pagamento”. E i dati lo confermano: il 49% dei produttori afferma che i termini vengono rispettati solo talvolta. Alla cassa, invece, si paga subito. —
 

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