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Economia / Attualità

La legge 185 sull’export di armi è sotto attacco. Un appello per difenderla

Nel 2021 l’Italia ha revocato sei licenze per la fornitura di armi e missili ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. La reazione del settore della difesa -negli interessi dell’industria militare- non si è fatta attendere, mettendo nel mirino la norma del 1990. “La revoca delle licenze non dovrebbe essere l’eccezione, ma la regola”, spiega Rete pace e disarmo

Applicare in modo rigoroso e trasparente la Legge 185 del 1990, chiamando il Parlamento a un attento controllo sull’esportazione di armamenti. È l’appello al governo italiano lanciato da 33 organizzazioni, tra cui Rete italiana pace e disarmo, Arci, Amnesty International, Save the Children. Tema di dibattito è la revoca di sei licenze per la fornitura di armi e missili ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, un evento inatteso che ha portato agitazione nell’industria militare. La decisione era stata presa nel gennaio 2021, proprio negli ultimi giorni del governo Conte II, accogliendo una deliberazione del Parlamento. Ad aprile, il Tar del Lazio ha respinto il ricorso dell’azienda Rwm, perché “risultano ampiamente circostanziati e seri i rischi che gli ordigni oggetto delle autorizzazioni possano colpire la popolazione civile yemenita” e “la salvaguardia e l’incolumità della popolazione civile” prevalgono sull’interesse economico privato.

La “185/90”, che regola l’export militare, esiste da 30 anni ma è stata troppe volte disattesa. Prevede che le aziende produttrici di armamenti chiedano al governo le autorizzazioni ad esportare e vieta di fornire armi a Paesi in conflitto armato, in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione (in cui si afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli), o che violano i diritti umani. “La legge, in teoria, ha un ottimo impianto e ha ispirato la normativa internazionale -spiega Francesco Vignarca, coordinatore campagne per la Rete italiana pace e disarmo- ma, soprattutto negli ultimi anni, non viene applicata. Con il caso eccezionale della guerra nello Yemen, in cui sono coinvolti Arabia Saudita ed EAU, oltre alla protesta abbiamo intrapreso azioni legali. Abbiamo potuto ricostruire una documentazione dettagliata sulle armi fornite dall’Italia e i bombardamenti nello Yemen. Così dal luglio 2019 è scattata una sospensione di 18 mesi delle autorizzazioni per l’export di alcuni tipi di armi: missili e bombe di aereo. Volevamo una proroga, ma la risoluzione del Parlamento ha fatto di più: la revoca definitiva delle sei licenze”. Già nel 2016 il Parlamento europeo, d’altronde, aveva esplicitato che “gli esportatori di armi aventi sede nell’Ue alimentano il conflitto nello Yemen”.

La reazione non si è fatta attendere: nelle ultime settimane, racconta Vignarca, esperti del settore della difesa, opinionisti, parlamentari, hanno ribadito la centralità dell’industria militare e delle esportazioni di armi per l’economia del Paese. Nella Relazione annuale del ministero della Difesa lo stesso Capo di Stato maggiore, il generale Enzo Vecciarelli, parla di “perplessità e rammarico” rispetto alle limitazioni dell’export verso Arabia Saudita ed Emirati, affermando che tali attività “rappresentano una voce del bilancio nazionale e un fattore di penetrazione strategica di assoluto rilievo, non surrogabile da altri settori o comparti nazionali”.

“Prima tutti sostenevano la legge 185 del 1990. Quando si è applicata davvero è partito un attacco concentrico che vuole indebolire le procedure e il testo di legge -continua Vignarca-. La revoca delle licenze non dovrebbe essere l’eccezione, ma la regola: si sta seguendo semplicemente la legge. Le norme italiane sono in linea con la Posizione comune europea del 2008 e il Trattato sul commercio delle armi (Att) del 2014: anzi, l’Att vieta l’export in caso di ‘sospetto’ di violazione di diritti umani, mentre la 185/90 parla di casi gravi e accertati. Per anni la Relazione annuale del governo prevista dalla legge è stata poco considerata dal Parlamento, che dovrebbe avere un ruolo più attivo, esercitare il proprio potere di indirizzo”.

Nel 2020 l’Italia ha continuato a vendere armi a Paesi che violano sistematicamente i diritti umani: tra questi, oltre ad Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti (che restano in lista per alcuni tipi di armamenti) ci sono Turchia ed Egitto. Quest’ultimo, nonostante i casi di Giulio Regeni e di Patrick Zaki, è il primo Paese destinatario per flussi economici, con commesse per 991,2 milioni di euro, grazie in particolare a quella delle due fregate Fremm.

I dati citati sono relativi al 2020 e provengono della Relazione governativa annuale di aprile, dove si nota, rispetto al 2019, un calo delle nuove autorizzazioni (-25%) e l’aumento dell’export reale, grazie a quelle concesse in passato (+ 17%, valore totale pari a 3393 milioni di euro). Per legge, le esportazioni dovrebbero essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia, eppure, confermando il trend degli ultimi anni, ben il 56,1% delle autorizzazioni per licenze ha per destinatari Paesi che non fanno parte né dell’Unione europea, né della Nato.

Secondo la Rete italiana per la pace e il disarmo è una conferma di come “la produzione militare italiana non sia indirizzata alla difesa e alla sicurezza del nostro Paese ma risponda sempre più a logiche di profitto delle aziende produttrici di armamenti”. D’altronde, il rapporto di aprile 2021 Analisi dell’influenza dell’industria della difesa sull’agenda politica italiana (curato da Transparency International – Difesa e Sicurezza, CILD e OsservatorioMil€x) evidenzia lo stretto legame tra aziende del settore della difesa e governo, che “mette a repentaglio l’integrità e la responsabilità del processo decisionale politico”, ostacolando in concreto l’applicazione della legge.

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