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La frontiera europea in mezzo al Sahara

Respinti dall’Algeria, migliaia di giovani africani attendono in Mali di riprendere il loro viaggio della speranza. Che le politiche di Bruxelles rendono un incubo Gao (Mali) – Justice ha quasi perso la speranza. Sbattuto su uno scalino, lo sguardo perso…

Tratto da Altreconomia 102 — Febbraio 2009

Respinti dall’Algeria, migliaia di giovani africani attendono in Mali di riprendere il loro viaggio della speranza. Che le politiche di Bruxelles rendono un incubo

Gao (Mali) – Justice ha quasi perso la speranza. Sbattuto su uno scalino, lo sguardo perso nel vuoto, le mani che si attorcigliano su se stesse in segno d’impazienza, ripete solo una frase nel suo pidgin english: “No more, canna stann’ it no more”, “Ora basta, non ne posso più”.  Justice è stato respinto per la quarta volta dall’Algeria. Oggi si trova di nuovo a Gao, questa sonnacchiosa cittadina del Nord del Mali diventata il punto di partenza del suo personalissimo gioco dell’oca. Si guarda intorno attonito, a scrutare i vialoni polverosi che ormai conosce meglio delle strade del suo villaggio nell’est della Nigeria. “Mi sembra un incubo”, sibila con un sospiro. Accanto a lui, quattro ragazzi annuiscono con la testa. Sono i componenti dell’ultimo gruppo di refoulés (rimpatriati) dall’Algeria:  Paul un camerunese che sogna di fare il calciatore; Edward, un nigeriano taciturno che ha uno strano tic all’occhio sinistro; Norbert, un altro camerunese altissimo e massiccio; Sylvain, un ivoriano che dice di essere iscritto all’università di Orano e un ragazzo giovanissimo della Guinea Bissau che non vuole nemmeno  dire il suo nome.
Tutti e sei sono arrivati da poco da Tin Zaouatine, il confine tra Algeria e Mali. Se ne stanno nel cortile della missione cattolica, una sorta di rifugio temporaneo per i migranti in transito. “Ne arrivano ormai anche dieci al giorno”, racconta père Anselm Mahwera, un prete tanzaniano che assiste i sub-sahariani di passaggio a Gao. “È un  fenomeno in crescita costante. Qui a Gao, più a Nord nella cittadina di Kidal, o al confine di Tin Zaouatine ci sono centinaia di migranti respinti e rimasti intrappolati. Non possono andare né avanti né indietro. Sono come sospesi in un limbo”. Père Anselm li manda alla stazione di polizia a registrarsi e spesso, attingendo ai fondi della missione, paga loro da mangiare e il biglietto di autobus per Bamako,  dove si inseriranno nella rete di assistenza approntata dalle rispettive comunità di appartenenza. “Noi cerchiamo di fare quello che possiamo di fronte all’indifferenza generale. Gao è diventata una specie di discarica per questi viaggiatori sfortunati: in Mali vengono deportati i cittadini di tutta l’Africa Occidentale, anche se non sono passati da qui per penetrare in Algeria”.
Gao è un imbuto. Sulle rive del fiume Niger, questa ex capitale del glorioso impero songhai è l’ultima città raggiunta dall’asfalto ai bordi del Sahara. Già punto di partenza delle rotte che risalivano verso l’Algeria e da lì in Marocco e in Libia, è ormai sostanzialmente un punto d’arrivo per i numerosi rimpatriati dal Paese vicino. “Da diversi mesi nessuno prende più la rotta di Gao. Gli algerini hanno rafforzato i controlli, su impulso dell’Unione europea”,  racconta Serge Daniel, un giornalista del Benin autore di un libro sul fenomeno dell’immigrazione dall’Africa Occidentale (Les routes clandestines,  Hacette). “L’immigrazione clandestina è diventata parte di un negoziato più vasto, tra gli Stati dell’Europa e quelli a Sud del Mediterraneo. Consapevoli della iper-sensibilità europea su questo tema, i Paesi del Nordafrica cercano di ottenere il massimo per assolvere il compito che viene chiesto loro, cioè ostacolare il passaggio con ogni mezzo”, afferma Daniel.
Da quando, nell’ottobre 2005, l’opinione pubblica europea è rimasta scioccata dagli assalti di centinaia di sub-sahariani ai recinti intorno a Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole in Marocco, gli Stati dell’Europa meridionale e l’Unione Europea nel suo complesso hanno deciso che bisognava bloccare il flusso alla radice. Hanno quindi cominciato a fare pressioni sui Paesi della frontiera Sud affinché si assumessero la responsabilità di controllare i loro confini e impedire il transito ai sub-sahariani intenzionati a raggiungere l’Europa. Così la Spagna ha promesso al Marocco investimenti in infrastrutture e un atteggiamento meno oltranzista sulla questione del Sahara Occidentale. L’Italia si è impegnata per far uscire la Libia dall’isolamento internazionale e ha poi firmato il 30 agosto scorso quel “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” in calce al quale è scritto a chiare lettere che “le due parti promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche” (i cui costi saranno sostenuti per il 50 per cento dal governo italiano e per il 50 per cento dalla Commissione europea). Senza contare che, nell’ambito del “piano d’azione sulla migrazione” per gli anni 2007-2013, Bruxelles ha stanziato 1,8 miliardi di euro per un fondo speciale dedicato alle “frontiere esterne”. Una cifra che non è passata inosservata ai vari attori dell’esternalizzazione,  sia a sud che ad est. Per aggiudicarsi una parte della torta, i singoli Paesi -dal Marocco alla Libia, dall’Ucraina alla Turchia- hanno rafforzato i controlli, aumentato le retate, modificato il proprio atteggiamento in senso repressivo.
Ultima in ordine di tempo ad aver deciso di partecipare a questo do ut des tra le due sponde del Mediterraneo, anche l’Algeria è ormai inserita a pieno titolo nel sistema europeo dell’esternalizzazione. Nel 2007 Bruxelles ha destinato ad Algeri 10 milioni di euro del programma Meda II per un progetto di “gestione dei controlli frontalieri”. Poco dopo, con una coincidenza temporanea più che sospetta, sono cominciate le deportazioni verso il Mali. Recentemente il governo algerino ha pensato di cambiare la legge sull’immigrazione, introducendo il carcere per i clandestini recidivi e pene severe per il favoreggiamento  all’immigrazione irregolare,  che di fatto puniscono chiunque dia ospitalità o offra assistenza a un migrante senza documenti.
“L’Algeria prima ci trattava  umanamente. Ci lasciava più o meno stare” racconta Romeo Ntamag Elom, presidente dell’Association des refoulés d’Afrique centrale au Mali (Aracem). Questo giovane camerunese è in viaggio da quattro anni. Arrivato alle porte dell’Europa, a pochi metri dal confine di Melilla, è stato catturato dai gendarmi marocchini, spedito in Algeria e poi rimpatriato tappa a tappa fino in Mali. Oggi vive a Bamako e ha quasi rinunciato al suo sogno. Ha costituito l’associazione e coordina quello che chiama il foyer, ma che gli immigrati di passaggio definiscono “il ghetto”. Un palazzo fatiscente su due piani alla periferia della città, quattordici stanzette senza luce in ognuna delle quali vivono ammassati tra quindici e diciotto persone, il foyer è il solo punto di raccordo e di sostegno che ha saputo darsi questa comunità di uomini e donne in transito. Nel cortile pieno di panni stesi, due donne cucinano su un paiolo scaldato sulla brace, mentre un gruppo di ragazzi è impegnato in una discussione sulla recente visita a Bamako del ministro francese dell’Immigrazione Brice Hortefeux, venuto in Mali per ottenere la firma dell’accordo bilaterale di rimpatrio. “Alla fine, Att (Amadou Toumani Touré, il presidente della Repubblica ndr) cederà e firmerà” si infervora uno. “No, resisterà, almeno fino alle prossime elezioni” tuona un altro.
Gli abitanti del ghetto sono ben informati  sull’evoluzione delle misure di contrasto all’immigrazione irregolare, sui negoziati in corso tra i vari Paesi, sulle rotte che si aprono e quelle che si chiudono.
 “Qui si incontrano coloro che vogliono partire e coloro che sono stati respinti dall’Algeria” racconta Romeo. “Negli ultimi mesi, i secondi sono diventati la schiacciante maggioranza”,  sottolinea storcendo la bocca in una smorfia. Poi racconta il suo personale calvario sulla via del ritorno dall’Algeria. “Mi hanno preso a Maghnia, nel Nord, mentre stavo in un cybercafé. Mi hanno caricato su un camion insieme ad altri refoulés. Abbiamo fatto un viaggio lunghissimo. Ogni tanto ci fermavamo in un commissariato. Poi, dopo una decina di giorni, ci hanno lasciati in mezzo al deserto, alla frontiera di Tin Zaouatine”.  
Tin Zaouatine è un suono che ritorna, un nome che riecheggia nei racconti dei deportati. “Tinza è un posto fuori dal mondo, in cui gli algerini parcheggiano i migranti raccattati ed espulsi, ben sapendo che poi magari rientreranno”, racconta Serge Daniel. Che aggiunge: “Spesso i rimpatri sono fatti solo per fare numero e compiacere i vicini del Nord. Molti migranti respinti ripartono e sono rimpatriati di nuovo. Così, nel calcolo cinico di Algeri, finiscono per valere il doppio”. A 1.200 chilometri da Bamako, seduto sullo scalino della missione cattolica di Gao, Justice non smette di intrecciare nervosamente le mani e di guardarsi intorno con aria spaesata. Sta probabilmente pensando se tentare la sua quinta chance o archiviare per sempre il suo sogno europeo. 

Intervista. Algeria, Marocco e Libia: i gendarmi dell’Ue
Controllo dei flussi per contro terzi
“La politica di contrasto all’immigrazione  irregolare dell’Unione Europea è criminale ed è condotta in totale spregio di quei diritti umani di cui l’Europa afferma di essere la culla”.
Ousmane Diarra non è uomo da mezze misure. Presidente dell’Association malienne des expulsés (Ame), un’organizzazione che presta assistenza agli immigrati rimpatriati o refoulés alle frontiere verso il Mali, questo gigante dallo sguardo severo sa di cosa parla quando evoca l’esperienza del  respingimento. Dopo più di dieci anni in Angola, nel 1996 è stato deportato all’improvviso il giorno in cui il governo di Luanda ha deciso di disfarsi degli immigrati africani. È stato allora che insieme ad altri espulsi, per lo più dall’Europa, ha dato vita all’associazione, il cui obiettivo è “dare voce ai rimpatriati e assisterli sia psicologicamente che materialmente”. Lo incontriamo nella sede dell’Ame, due piccole stanze al primo piano di un palazzo anonimo alla periferia della capitale Bamako, di fronte ai venditori di frutta e di carbone del mercato di Fadjiguila.
Perché sostiene che l’Unione Europea si comporta in modo criminale?
Perché delega agli Stati del Nord Africa, che non hanno alcuna remora a violare i diritti umani, il controllo dei flussi migratori. È un fenomeno che si va sempre più generalizzando.
Il Marocco, l’Algeria, la Libia svolgono tutti la stessa funzione: gendarmi per conto terzi. Nell’ultimo anno e mezzo, sono aumentati in modo esponenziale i rimpatri dall’Algeria, condotti spesso in modo illegale e arbitrario. I maliani, che teoricamente non hanno bisogno del visto per soggiornare nel Paese vicino, finiscono nelle retate e vengono rispediti anche loro indietro. Tra i respinti, ci sono a volte studenti in regola.
Perché secondo lei Algeri ha cambiato politica nell’ultimo periodo?
Per mantenere buoni rapporti con l’Unione europea, che ringrazia inondando il Paese di fondi. Ogni settimana, centinaia di migranti sono portati a Tin Zaouatine, una no man’s land alla frontiera tra Algeria e Mali, e lì abbandonati, in mezzo al deserto. Quelli che riescono ad arrivare nelle città più vicine sono spesso malati e bisognosi di assistenza. Ma di questo l’Europa non si preoccupa. Tanto sono altri a fare il lavoro sporco. E Algeri si presta al gioco. Io dico che bisogna sgomberare il campo dalle ipocrisie: con la sua politica, l’Algeria oggi non fa più parte dell’Africa. È il primo Paese europeo.
In un certo modo, però la politica funziona. La rotta dal Mali all’Algeria è molto meno battuta…
La rotta è meno battuta, ma non sono diminuite le persone in partenza. Semplicemente, i flussi si sono spostati verso la Mauritania sulla rotta marittima che va alle isole Canarie. L’Europa deve capire una cosa: come chiude una rotta, se ne apre un altra. Come blinda un passaggio, se ne scardina un altro. Il problema è alla radice. Noi che abbiamo vissuto l’esperienza dell’emigrazione e dell’espulsione, cerchiamo spesso di far desistere coloro che vogliono partire. Li mettiamo in guardia contro i rischi del deserto, i pericoli del mare. Ma loro spesso ci guardano negli occhi e ci dicono: che resto a fare qui? Quali sono le mie prospettive? 

Il “freno” del Mali
Inaugurato in pompa magna il 6 ottobre 2008 a Bamako, alla presenza del ministro francese per l’Immigrazione Brice Hortefeux, del commissario europeo allo Sviluppo Louis Michel e del presidente della Repubblica maliana  Amadou Toumani Touré,  il Centre d’information et gestion des migration (Cigem) è nato dalla collaborazione tra l’Europa e i Paesi del Sahel. Fortemente voluto dalla Francia, che da tempo sta spingendo il Mali a firmare un accordo di rimpatrio per i suoi concittadini colti in posizione irregolare sul territorio francese, il centro ha un budget di 10 milioni di euro fino al 2013. Tra i suoi compiti, come sottolinea il direttore Abdoulaye Kounate, c’è quello di “informare, orientare gli immigrati in partenza, i potenziali migranti e quelli di ritorno, sensibilizzare la popolazione sui rischi dell’immigrazione irregolare”. Nella fase iniziale, il Cigem ha raccolto le critiche delle varie associazioni di migranti presenti in Mali, che lo hanno dipinto come un cavallo di Troia della politica di esternalizzazione dell’Unione europea.  Kounate, che ci riceve nella sede in un quartiere amministrativo di Bamako, respinge le accuse: ha incontrato le organizzazioni della società civile, che hanno mitigato le critiche, e raccolto curriculum per posti di lavoro che si aprono nei singoli Stati dell’Ue. Sa che si muove su un terreno difficile, ma rivendica la piena indipendenza: “L’Ue mette i soldi, ma non interferisce nella gestione del Centro -sottolinea-.Noi facciamo un lavoro di coordinamento e di studio. Gli accordi tra Stati si discutono a livello ministeriale. Il Cigem non c’entra”. 

L’Italia tra la rotta libica e quella algerina
Il ministro dell’Interno Roberto Maroni l’ha detto chiaramente. “Il 2009 sarà l’anno della fine degli sbarchi”.
Il Viminale ripone grandi speranze nel Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato firmato da Berlusconi in Libia il 30 agosto scorso, che prevede diverse misure per il contrasto all’immigrazione irregolare. Fra queste, il famoso pattugliamento congiunto delle coste,  già contenuto nell’accordo siglato da Romano Prodi il 30 dicembre del 2007. Dopo un aumento degli sbarchi nel 2008 (36.900, il 75% in più rispetto al 2007), il ministro spera in un’inversione di rotta. Gli arrivi massicci e insoliti a Lampedusa di quest’inverno in un certo senso gli danno  ragione. È come se ci fosse un’accelerazione,   che funge anche da mezzo di pressione da parte delle autorità libiche per ottenere la ratifica del Trattato in tempi rapidi. Bisognerà aspettare i prossimi mesi per vedere se la rotta libica si ridurrà d’intensità (e se, come probabile, si aprirà in modo più evidente una rotta algerina verso la Sardegna).

Come un uomo sulla terra
Stupri, punizioni collettive, trasbordi da un campo di detenzione a un altro con container di ferro senza finestre.
È questa la quotidianità degli immigrati del Corno d’Africa in Libia, come emerge dal film documentario “Come un uomo sulla terra” di Riccardo Biadene, Andrea Segre e Dagmawi Yimer.  Realizzato assemblando una serie di interviste a immigrati etiopi ed eritrei arrivati in Italia attraverso la Libia, questo film -cui ha collaborato anche chi scrive- mette in luce la faccia nascosta dei vari accordi sull’immigrazione siglati tra Roma e Tripoli. Così Fikirte, una delle ragazze etiopi intervistate,  racconta come un giorno nel campo di Kufrah in cui era rinchiusa, “sono arrivate delle jeep con la bandiera italiana. Hanno fatto un giro per il centro e si sono resi perfettamente conto delle condizioni pessime”. Kufrah, nella parte sud-orientale della Jamahiriya, alla frontiera con il Sudan, è una specie di incubo ricorrente nei racconti dei migranti. È qui che vengono trasportati ogni volta che sono catturati nel Nord, a Tripoli o Bengasi. È qui che poi i poliziotti libici li vendono a degli intermediari,  che li liberano solo su versamento di una cauzione mediante un sistema informale di Western Union. C’è chi, come John, è passato per Kufrah sette volte.  Lo stesso Dagmawi,  co-regista, protagonista e voce narrante del film, ha compiuto il viaggio e sperimentato gli effetti degli accordi italo-libici sulla propria pelle. Su questo interroga il ministro degli Esteri Franco Frattini in un’intervista realizzata durante la passata campagna elettorale, “Non le sembra contraddittorio che l’Italia paghi la Libia per bloccare migranti come me e poi, una volta arrivati, ci riconosce lo status di rifugiati politici o la protezione umanitaria?”. Il titolare della Farnesina, allora commissario europeo,  si rifugia dietro il ruolo istituzionale e ribatte che di queste questioni rispondono i singoli Stati membri. Oggi, che ha assunto la nuova funzione forse potrà dare una risposta più esaustiva.

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