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Ambiente / Varie

La flotta a quattro ruote

Nei primi sei mesi del 2015 le auto "aziendali" -venduti a società o a soggetti che si occupano di noleggio- costituiscono quasi il 40% del mercato italiano dell’auto. Secondo un’analisi di Transport & Environment, la normativa del nostro Paese sussidia le company car troppo senza incentivare la scelta di veicoli sostenibili. I sistemi fiscali nazionali, infatti, potrebbero aiutare ad implementare le vendita di macchine a ridotto impatto ambientale

Tratto da Altreconomia 171 — Maggio 2015

Ogni dieci nuove auto immatricolate in Italia nei primi due mesi del 2015, ben 4 appartengono a società, sono intestate a “persone giuridiche” e non a privati. I dati del ministero delle Infrastrutture evidenziano come su un totale di 266.617 nuove autovetture “targate”, ben 106.170 siano in capo ad aziende o acquistate con la formula del leasing o comprate da soggetti che si occupano di noleggio, anche a lungo termine.
È la prima volta che nel nostro Paese quelle che vengono definire “company car” valgono il 40 per cento del mercato (e oltre, perché a febbraio 2015 il dato ha registrato il 44,1%), e questo rappresenterebbe un problema anche in termini di sostenibilità complessiva del parco-auto nazionale. Almeno secondo le analisi del centro studi “Transport & Environment” (trasporti e ambiente, www.transportenvironment.org), che nel rapporto “CO2 emissions from new cars in Europe: Country ranking” analizza come i sistemi fiscali nazionali possano aiutare ad implementare le vendita di auto a ridotto impatto ambientale in Europa. Le scelte dell’Italia sarebbero complessivamente weak, deboli.
“Per ogni Paese membro dell’Ue abbiamo calcolato un ‘green car rating’, e quello dell’Italia è davvero debole perché non esistono una tassa di registro d’importo adeguato, né una tassa di circolazione o una tassazione efficace sulle auto aziendali, comparando il dato con quello relativo ad altri Paesi europei -spiega ad Altreconomia Greg Archer, policy expert sul settore delle auto per “Transport & Environment” (nella foto qui accanto)-. Se guardiamo all’Italia, possiamo notare come il Paese abbia un livello di tassazione sui carburanti più alto della media europea (vedi Ae 167), ma il nostro studio conclude che l’imposizione sui combustibili non influenza il mercato portando a scegliere veicoli più efficienti, cioè con un livello inferiore di emissioni di CO2. La tassazione dei veicoli è molto più importante. Questo -continua Archer- spiega perché l’Italia presenti un ‘green car rating’ basso. La legislazione italiana dovrebbe essere modificata per innalzare in modo significativo il livello di tassazione sulle auto acquistate dalle aziende (company car tax, ndr). Allo stesso tempo, dovrebbe essere inserito un differenziale tra le auto diesel e quelle che utilizzano benzina”.
La visione di Transport & Environment è diametralmente opposta rispetto a quella degli operatori del settore. Secondo il presidente di ANFIA, l’Associazione nazionale fra industrie automobilistiche, il mercato delle auto “intestate a società” in Italia sarebbe “penalizzato da una fiscalità non equa rispetto a quella degli altri maggiori mercati europe”: Roberto Vavassori lo ha spiegato a Motori 24 (del gruppo Il Sole 24 Ore). Nonostante questo, nel 2014 le company car vendute nel nostro Paese sono state complessivamente oltre mezzo milione, pari al 37,3% del mercato italiano del “nuovo”. 

Greg Archer, come spiegate il successo di questo tipo di mercato?
In Europa, in media, circa il 50 per cento delle nuove auto sono appannaggio di clienti business. Le ‘auto aziendali’ e le ‘carte-carburante’ sono benefit offerti agli impiegati che vengono tassati in modo molto prudente dei Paese membri dell’unione. Ciò rappresenta una sorta di sussidio a favore di chi guida, e porta alla presenza sulle strade di auto mediamente più potenti, incoraggiando i fruitori di questi veicoli a guidarli per un chilometraggio medio maggiore. Questo rappresenta un problema: oggi che il numero delle auto aziendali in circolazione è alle stelle. Recentemente, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha osservato come “le politiche di tutela dell’ambiente nei Paesi OCSE otterrebbero risultati più significativi se venissero meno le politiche di sotto-tassazione delle auto aziendali, in particolare per quanto riguarda la componente relativa alla distanza percorso”.

Archer fa riferimento a un rapporto OCSE pubblicato nel settembre del 2014, dal titolo significativo “Under-taxing the benefits of company cars. A driver of social costs”. Questi meccanismi, cioè gli incentivi al ricorso e all’utilizzo alle auto aziendali, comportano costi sociali, che paghiamo tutti.
È lo stesso rapporto a calcolare il valore dei sussidi, evidenziano come l’Italia sia -in compagnia di Francia, Ungheria, Germania, Portogallo e Belgio- tra quelli che ne riconoscono di più alti. Il nostro Paese si ferma a circa 2mila euro, mentre il Belgio, che guida la “classifica”, arriva a 2.763. “I costi in termini ambientali e sociali sono significativi, perché l’effetto stimato dall’OCSE di questo regime di sotto-tassazione, che comporta un maggiore inquinamento dell’aria, una riduzione della salubrità degli alimenti, congestione e incidenti sulle strade, è di 116 miliardi di euro” spiega Greg Archer.

Crede che la Commissione europea, e i Paesi membri, saranno capaci di rispondere con interventi legislativi adeguati a questi temi?
L’Unione europea non ha una responsabilità diretta sui temi legati alla tassazione, che sono invece in capo agli Stati membri. La Commissione europea ha però prodotto delle linee guida sulla tassazione legata agli autoveicoli, raccomandando i Paesi membri a introdurre su quelli aziendali un prelievo fiscale basato sull’emissione di CO2.
Sono già molti quelli che hanno introdotto queste indicazioni di principio nel proprio sistema di tassazione, e alcuni -Olanda, Gran Bretagna e Francia- lo applicano anche alle auto aziendali. Altri, come l’Italia, sono ancora indietro.

Qual è l’effetto dell’assenza di un company car tax “CO2 oriented” nel nostro Paese?
La situazione in Italia rappresenta -secondo l’OCSE- un’eccezione rispetto alla regola di tassare i veicoli in base alle emissione di CO2. Il vostro Paese è uno dei peggiori, perché garantisce inoltre sussidi importanti per le auto aziendali, senza legarli in alcune modo alle emissioni.
L’Olanda, ad esempio, nel 2005 era il 12° Paese nella classifica legata alle emissioni medie di CO2 del proprio parco auto, ma da quando ha riformato la propria politica fiscale, rendendola più aggressiva, ha “scalato” il ranking arrivando al primo posto. Anche la Danimarca è passata dal nono al quarto posto in classifica. Se uno guarda all’Italia, la trova in una buona posizione (la sesta, ndr) ma questo è dovuto a un’abitudine storica all’acquisto di auto di piccola cilindrata. Schemi fiscali adeguati comporterebbero una riduzione ulteriore nelle emissioni di CO2.

T&E pensa che la fiscalità sulle auto aziendali vada riformata. Che i Paesi membri debbano basare l’imposizione sulle emissioni di CO2. Le tasse all’atto di acquisto hanno una maggiore influenza rispetto a quelle di circolazione, e dovrebbe essere introdotte da tutti gli Stati dell’Ue. E dovrebbe essere previsto anche un differenziale tra diesel e benzina, con tassazione più elevata sui veicoli diesel, perché questi ultimi causano un maggiore inquinamento dell’aria e provocano maggiori emissioni di CO2.

Almeno in Italia, all’esplosione del mercato delle vetture aziendali corrisponde una crescita di quello delle auto “usate”, visto che le prime diventano tali in media dopo 36-48 mesi di utilizzo. Il mercato di “seconda mano” rappresenta ormai il 76% del totale. L’insostenibilità in termini ambientali del mercato delle auto aziendali, che effetto complessivo ha (e avrà) sulla composizione del parco-auto?
Ogni auto immessa sul mercato resterà in giro, in media, per un periodo di circa 15 anni. Le scelte odierne delle aziende, che acquistano vetture ad alte emissioni, grazie agli incentivi o perché queste non sono tassate adeguatamente, modifica la flotta disponibile sui mercati dell’usato. Per questo, è importante arrivare ad influenzare il primo proprietario” .

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