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Opinioni

La fine del mondo

Per la prima volta da quando l’uomo è sulla Terra, nella nostra epoca la sua presenza si è rivelata talmente invadente -e capace di modificare la Natura- che è stato coniato un termine per indicare l’era geologica attuale: Antropocene. Prima che sia troppo tardi, dobbiamo reagire con rigore: la nostra generazione ha il dovere -e il diritto- di cambiare le cose. Il commento di Pietro Raitano

Tratto da Altreconomia 167 — Gennaio 2015

Da quando l’uomo ha messo piede sulla Terra -tra i 100 e 200mila anni fa: la nostra presenza è solo una fugace apparizione, rispetto all’età del Pianeta- ogni generazione ha forse avuto la percezione che la propria fosse un’epoca straordinaria.
Un’epoca diversa dalle altre: più importante, o drammatica, o felice. Oggi studiamo sui libri di storia le civiltà e il susseguirsi delle società umane, e leggiamo un’altalenarsi di periodi più o meno intensi. Sorridiamo all’idea che, 10mila, mille o anche solo 100 anni fa, qualcuno abbia pensato che quel momento storico fosse più significativo di quelli precedenti. A proseguire in questo solco, sarebbe ragionevole pensare che anche l’epoca che stiamo vivendo si inserisca in questo flusso, e di noi resteranno solo poche righe in un libro (o chissà che altro dispositivo) del futuro.
Eppure, qualche elemento per dire che gli anni che viviamo oggi, qui, su questa Terra, sono davvero straordinari, c’è. Per la prima volta nella storia dell’uomo siamo oltre 7 miliardi di individui, e il traguardo dei 10 miliardi non è lontano. Una popolazione così vasta è un inedito. Altro inedito: la maggior parte della popolazione mondiale vive in città, e non più in campagna, dove si produce il cibo. Incidentalmente, un abitante su quattro delle città non vive in comode case con acqua corrente ed elettricità, ma in una baraccopoli.
Per la prima volta da quando l’uomo è sulla Terra, la sua presenza si è rivelata talmente invadente -e capace di modificare la Natura- che è stato coniato un termine per indicare l’era geologica attuale: Antropocene (la definizione si deve al biologo Eugene Stoermer, anche se è stata resa famosa dal  premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, che per primo studiò il fenomeno del buco nell’ozono). Non riguarda solo il consumo, smodato, di risorse come acqua, petrolio, minerali, foreste. L’invadenza dell’uomo è tale che la perdita di biodiversità causata dalle sue attività secondo molti ci sta ponendo di fronte alla sesta estinzione di massa della storia (la quinta, per intenderci, fu nel Cretaceo: 65 milioni di anni fa).
Infine, il cambiamento climatico -sempre causato dall’uomo- sta avvenendo secondo modalità ancora una volta inedite, e dalle conseguenze devastanti.

È la fine del mondo? Forse no, ma certamente siamo consapevoli di appartenere a una generazione che ha il dovere -e il diritto- di cambiare le cose. Per questo, quando qualcuno dice che per uscire dalla crisi si deve puntare alla crescita e attrarre investimenti dovremmo non solo storcere il naso, ma reagire con decisione. E perlomeno chiedere: la crescita di che cosa?, gli investimenti per fare che?
Il termine “decrescita” ispira sentimenti contrastanti. A molti evoca difficoltà, perdita di benessere, ritorno al passato. Chi, da anni, ne parla, non intende nulla di tutto ciò. Intende ragionevolmente  porre l’accento sul fatto che i consumi dell’uomo devono diminuire, se vogliamo un futuro. E tra l’altro, questo potrebbe portare anche maggior benessere e giustizia. Il termine decrescita è una provocazione: finché andrà avanti il vuoto mantra della crescita, ci sarà qualcuno che proporrà il destabilizzante tema della decrescita.
Noi la chiamiamo “altra economia”, e nel cuore di questa non c’è solo l’ambiente. C’è anche il rispetto dell’uomo in un impegno comune, condiviso, quotidiano.
In occasione della giornata mondiale della pace, il primo gennaio, papa Francesco ha scritto un messaggio intitolato “Non più schiavi, ma fratelli”. “Ancora oggi milioni di persone vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù. Penso a tanti lavoratori, anche minori, asserviti nei diversi settori […]. Chiediamoci come noi, in quanto comunità o singoli, ci sentiamo interpellati quando, nella quotidianità, incontriamo o abbiamo a che fare con persone che potrebbero essere vittime del traffico umano, o quando dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero ragionevolmente essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone”.
L’appello a un commercio equo e giusto, non poteva arrivare che da un papa giunto “dalla fine del mondo”.

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