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La fine dei Petrostati: perché la costosa dipendenza da gas e petrolio ci riguarda

© Colton Sturgeon -Unsplash

I 40 Paesi maggiormente dipendenti dalla produzione fossile nei prossimi vent’anni potranno perdere fino a 9mila miliardi di dollari per via del graduale passaggio alle energie rinnovabili. Dall’Iraq all’Arabia Saudita, fino all’Angola. Il report di Carbon Tracker mette in guardia: a rischio i più poveri, dalle economie avanzate occorre cooperazione

Novemila miliardi di dollari: è la perdita che potrebbero subire i 40 Stati maggiormente dipendenti dalla produzione di petrolio e gas nei prossimi due decenni, per via del graduale passaggio alle energie rinnovabili. Lo evidenzia il think tank indipendente Carbon Tracker nella ricerca “Beyond Petrostates – The burning need to cut oil dependence in the energy transition” pubblicata a fine febbraio 2021 e che ha analizzato l’impatto che la transizione energetica avrà sulle entrate statali derivanti dalla produzione di combustibili fossili.

Come spiega ad Altreconomia Axel Dalman, junior analyst di Carbon Tracker e coautore della ricerca, “in uno scenario a basse emissioni, nel rispetto dell’Accordo di Parigi sul clima, la domanda di petrolio e gas sarà in calo, determinando potenziali effetti devastanti per le casse dei cosiddetti Petrostati”. Si tratta dei 40 Paesi con la più alta percentuale di introiti fiscali derivanti dalla produzione di combustibili fossili, che finora hanno programmato le loro attività basandosi su una domanda di greggio in crescita fino al 2040.

Considerando però lo “scenario di sviluppo sostenibile” prospettato dall’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) e caratterizzato da emissioni di CO2 in declino, Carbon Tracker calcola che in tutto il mondo le entrate statali derivanti dalla produzione di idrocarburi potrebbero subire un calo di 13mila miliardi di dollari nei prossimi vent’anni. E il 70% delle perdite ricadrà proprio sui Petrostati, la maggior parte dei quali si trova in Medio Oriente e Nord Africa. I 9mila miliardi di dollari che questi 40 Paesi potrebbero perdere rappresentano quasi la metà della rendita da produzione di combustibili fossili. 

Quanto pesa questo danno economico sui bilanci dei Petrostati? Per rispondere a questa domanda e identificare i Paesi maggiormente a rischio, Dalman e colleghi hanno elaborato un indicatore di vulnerabilità, che per ogni Stato combina le potenziali perdite con il livello di dipendenza delle entrate fiscali da petrolio e gas. Il grado di vulnerabilità più alto (Tier 5) comprende Paesi quali l’Angola, l’Oman e il Bahrein, che hanno una percentuale maggiore del 40% di redditi fiscali derivanti da petrolio e gas e che potrebbero veder evaporare oltre la metà delle loro entrate nei prossimi vent’anni. Nella seconda fascia di maggior vulnerabilità (Tier 4), rientrano tra gli altri l’Algeria, la Libia, il Kuwait e l’Iraq, che potrebbero subire un taglio fino al 40%. 

Secondo il report, le perdite globali sono attribuibili per l’80% al calo dei prezzi. “Ecco perché è ad alto rischio anche un Paese come l’Arabia Saudita (Tier 4) che, nonostante la competitività e i bassi costi di produzione di petrolio, ha un’alta dipendenza dai redditi petroliferi e quindi il suo bilancio è molto esposto ai cali di prezzo del greggio”, continua Dalman. La metà dei Petrostati si trova nei due gradi di più alta vulnerabilità (Tier 4 e 5). Come afferma il coautore del report, “i rischi a cui saranno esposti questi Stati aumentano se consideriamo che hanno anche alti livelli di debito, bassa affidabilità creditizia e scarsi risparmi”.

Tra le raccomandazioni espresse in “Beyond Petrostates”, questi Paesi dovrebbero stabilire dei piani per diversificare la propria economia, riformare il sistema fiscale, tagliare gli ingenti sussidi alle fonti fossili e investire nel capitale umano e sociale. La questione ha poi una rilevante “dimensione umanitaria”: secondo le Nazioni Unite, tra i 33 Paesi al mondo che hanno un basso indice di sviluppo umano, dieci sono Petrostati o Petrostati emergenti, tra i quali Ciad, Sud Sudan e Nigeria.

Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite ha più volte indicato come gli impatti del riscaldamento globale ricadranno in maniera più forte sulle popolazioni povere. Analogamente, nel report di Carbon Tracker, si legge che “le difficoltà legate all’abbandono di un’economia basata sui combustibili fossili peseranno sproporzionatamente sui più poveri Stati produttori”. Le conseguenze sociali, l’instabilità politica e i potenziali aumenti di flussi migratori che la transizione energetica potrebbe generare dovrebbero spingere le economie più avanzate a collaborare con questi Paesi, come sostiene Dalman, “soprattutto offrendo un supporto tecnico per avviare la diversificazione e riformare i sistemi fiscali”.

Axel Dalman

Un rischio identificato dagli autori del rapporto è che i Petrostati cadano nel “dilemma del prigioniero”: che tentino cioè di massimizzare la produzione e le vendite di greggio per paura del futuro calo della domanda. Questa soluzione danneggerebbe tutti, generando una sovrapproduzione e facendo sprofondare i prezzi. “La scelta migliore -spiega l’analista di Carbon Tracker -sarebbe avviare la transizione alle energie rinnovabili, riducendo gradualmente la produzione di combustibili fossili: in questo modo si eviterebbe il crollo dei prezzi, mantenendo stabili le entrate degli Stati”.

 Nonostante ci sia questo rischio, la demografia di questi Paesi dovrebbe spingerli a voler ridurre la dipendenza dalle fonti fossili. Infatti, come evidenzia Dalman, “si tratta di Paesi dalla popolazione giovane, che hanno bisogno di creare nuovi posti di lavoro qualificati e l’industria del petrolio e del gas non è un settore ad alta occupazione”. Se avviassero una transizione alle energie rinnovabili, conclude, “ne gioverebbero moltissimo in futuro: li renderebbe più competitivi, politicamente più stabili e creerebbe occupazione”.

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