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Diritti / Intervista

La doppia morte di Giovanni Lo Porto

Il cooperante italiano Giovanni Lo Porto - © Marianna Addonizio

Intervista a Domenico Quirico, giornalista, inviato de La Stampa e autore di “Morte di un ragazzo italiano”, il libro-inchiesta sul cooperante italiano, la condizione del prigioniero e le responsabilità degli Stati Uniti d’America in questa vicenda al confine tra Afghanistan e Pakistan. Per non dimenticare

Tratto da Altreconomia 219 — Ottobre 2019

Domenico Quirico ha scritto un libro in memoria di Giovanni Lo Porto, il cooperante italiano sequestrato nel gennaio del 2012 e morto tre anni dopo al confine tra Afghanistan e Pakistan. S’intitola “Morte di un ragazzo italiano” e -racconta l’inviato de La Stampa- “non è, non voleva essere, una biografia di Lo Porto: è la storia della sua morte, è lo scandalo della sua morte che va raccontato, ed è indipendente dalla sua vicenda prima di essere sequestrato”.

A quattro anni dalla morte di Giovanni Lo Porto, qual è l’urgenza che l’ha mossa a scrivere un libro in sua memoria?
DQ La vicenda di Giovanni esplica molti dei problemi più gravi e urgenti del nostro tempo: il dilagare dell’islamismo radicale, con le sue tattiche sanguinarie di sequestri e morti; il ruolo, la difficoltà e il rischio delle organizzazioni non governative che operano in luoghi difficili e complessi del mondo. C’è però un altro tema, da approfondire ed è la ragione della morte. Lo Porto non è stato ammazzato dai suoi sequestratori, che dal 2012 al 2015 lo hanno tenuto vivo. È stato ammazzato da coloro che avrebbero dovuto riportarlo a casa vivo, gli Stati Uniti d’America. Fu il presidente Obama a riconoscerlo: è stato ucciso da un drone americano, in un luogo ancora sconosciuto. Giovanni Lo Porto non è uno dei tanti sequestrati del nostro tempo, perché non è tornato a casa. È la morte di Giovanni che mi ha obbligato a scrivere questo libro. E il silenzio: è sparito immediatamente dalla memoria collettiva di questo Paese, che ha espulso Giovanni dal proprio ricordo. Non viene mai citato tra coloro che sono state vittime del terrorismo contemporaneo.

“È la morte di Giovanni che mi ha obbligato a scrivere questo libro. E il silenzio: è sparito immediatamente dalla memoria collettiva di questo Paese, che ha espulso Giovanni dal proprio ricordo. Non viene mai citato tra le vittime del terrorismo”

“La colpa di Giovanni -scrive- è stata quella di esser ucciso dagli americani”. Che cosa significa?
DQ Se uno viene ucciso dagli americani entra in una specie di purgatorio in cui non è più nulla, non è più vittima citabile. Questo è un aspetto su cui dobbiamo riflettere, anche perché non è la prima volta nella storia del nostro Paese: ricordo anche la vicenda del rapimento in Iraq della giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena, che si concluse con l’uccisione dell’agente dei servizi segreti Nicola Calipari (era il 4 marzo 2005, ndr) o la strage della funivia del Cermis, tranciata da un aereo da guerra americano. Il problema siamo noi: ci sono dei luoghi della memoria che sono preclusi, off limits, e lì il povero Giovanni è finito confinato e annullato. Il titolo corretto, quello che sceglierei da caposervizi agli esteri del mio giornale, è questo: “La doppia morte di Giovanni Lo Porto”.

Nel libro cita alcuni passaggi del messaggio di cordoglio dell’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, subito dopo l’annuncio di Barack Obama nell’aprile del 2015. Che cosa la colpì, perché è importante ricordarlo?
DQ Per la frettolosità con cui la vicenda è stata sepolta. Un cittadino di questo Paese è stato ammazzato, ma non c’è un giallo sull’identità dell’assassino. Non dobbiamo discuterne, possiamo riflettere se sia un omicidio volontario o preterintenzionale o colposo; nel libro ci sono tesi anche su questo, ma il tema è un altro: un cittadino di questo Paese viene ammazzato dal nostro primo alleato e questo non si può liquidare in dieci parole, parlando di guerra, di danno collaterale, chiamando la mamma per fare le condoglianze. Uno Stato deve chiedere -parola di cui lo stesso Governo ha abusato nel caso di Giulio Regeni- la “verità”. Perché è stato tirato quel drone? Chi ha dato l’ordine? Che informazioni aveva l’intelligence (altra parola abusata)? Qual era la situazione in quel luogo? Per quale ragione è stato dato comunque l’ordine di tirarlo? La morte di Giovanni Lo Porto non si poteva trattare come un incidente stradale. L’Italia deve chiedere spiegazioni sul perché questo si è verificato.

Il suo libro è anche un’inchiesta giornalistica. In Pakistan ha incontrato almeno due persone che avevano informazioni sul sequestro di Giovanni. Che cosa le hanno rivelato? Perché, a suo avviso, l’Italia, i nostri servizi segreti, non hanno voluto (o potuto) rispondere alle richieste dei rapitori?
DQ Alla madre di Giovanni Lo Porto era stato detto che il figlio sarebbe stato a casa a Natale 2014. C’erano stati contatti con dei mediatori, immagino ci fossero elementi concreti per dare questa speranza. Ricordiamo poi che il collega di Lo Porto, un tedesco, è tornato a casa, vivo, sano.

Evidentemente, a quanto ho potuto apprendere, le richieste dei rapitori non vertevano sul denaro, perché questi rapimenti non sono quelli della Barbagia negli anni Settanta. Per i movimenti islamisti il denaro è l’ultimo problema: non hanno bisogno di soldi, ma di scambiare prigionieri, di ottenere informazioni, di garantirsi che in un certo momento e in un determinato territorio da conquistare ci sia una libertà di passaggio per i loro miliziani. La questione aperta è: perché a un certo punto questa trattativa si è interrotta? Evidentemente l’interlocutore principale, che non necessariamente era l’Italia, non voleva concedere qualcosa. E qui una domanda, che resta senza risposta: quanto è stata valutata la vita di Lo Porto, e dell’altro ostaggio con lui, che era un cittadino americano? Qual è il “peso” di queste due vite rispetto, ad esempio, all’ammazzamento di un jihadista, dotato di passaporto americano? Non lo so. I servizi non emettono comunicati. L’ambiente dei servizi è per sua natura opaco, ma la politica non può essere opaca, specie quando alla fine della storia c’è una vita umana. Dopo l’uscita del libro pensavo che qualche magistrato mi chiamasse, per alcune informazioni contenute nel testo, ma non mi ha cercato nessuno.

“Quanto è stata valutata la vita di Lo Porto, e dell’altro ostaggio con lui, che era un cittadino americano? Qual è il ‘peso’ di queste due vite rispetto, ad esempio, all’ammazzamento di un jihadista, dotato di passaporto americano?”

Che cosa insegna la vicenda Lo Porto del rapporto di subalternità dell’Italia nei confronti degli Stati Uniti d’America? Nel libro lei incontra a Vicenza un ex agente statunitense, con cui ha un dialogo molto interessante.
DQ Insegna che nella storia più complicata e tremenda del tempo che viviamo, che una definizione impropria chiama “guerra al terrorismo”, noi -cioè gli Stati Uniti, gli altri sono comparse- usiamo gli stessi metodi di relativismo morale che imputiamo ai nostri avversari. Credo però che se il fanatismo può, con la sua logica infame, passare sopra al codice morale, in nome di una presunta legittimazione religiosa e mistica all’uccidere, noi non possiamo. Perché se accettiamo questo, perdiamo la guerra e ben più profondamente di quanto la perdiamo sul campo di battaglia, perché non dimentichiamo che l’Afghanistan è una sconfitta irrimediabile e senza scuse. È un altro tema che la vicenda di Giovanni impone: fino a che punto possiamo sacrificare Ifigenia perché dobbiamo arrivare a Troia? Il vecchio problema di Agamennone.

Tutto il libro è un viaggio nella condizione del prigioniero. Che cosa la lega alla figura di Giovanni Lo Porto?
DQ Il fatto che sono rimasto per cinque mesi prigioniero di movimenti islamisti, e tra questi anche al-Qaida, tra l’aprile e il settembre 2013 (alla vicenda Quirico ha dedicato un libro, “Il Paese del male”, scritto a quattro mani con Pierre Piccinin da Prata, ndr). La mia vicenda ha avuto per fortuna una conclusione diversa, ma sono in grado fino a un certo punto, lo dico con grande dolore, di immaginare quello che ha vissuto Giovanni per un tempo molto più lungo e con una conclusione assolutamente tremenda. Io mi specchio nella vicenda di Lo Porto, e nel libro descrivo come, mentre lo stavo scrivendo, anche la storia del mio sequestro abbia cambiato la sua traiettoria. Se non fossi stato sequestrato, questo libro non lo avrei scritto: la mamma di Giovanni mi ha chiamato dopo che sono tornato a casa, iniziando così il nostro colloquio. Oggi ogni vicenda di sequestrato, da ultimo quella della giovane Silvia Romano, è una mia storia, perché ne rivendico la consonanza. M’indigno, perciò, quando vedo che la politica e la società seguono queste vicende con indifferenza. C’è gente, colleghi giornalisti, ma anche politici, che si permette di scrivere o affermare “se fossero rimasti a casa?”. Questo m’indigna.

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