Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Ambiente / Attualità

La dieta senza carne: un valore che diventa anche una cura

Approfondimento ragionato sull’alimentazione sostenibile. E in un istituto geriatrico di Milano, la scelta vegeteriana è affiancata alla terapia

Tratto da Altreconomia 182 — Maggio 2016

La polpetta nel piatto di un paziente dell’istituto geriatrico Redaelli di Milano non è di carne: è di ceci o lenticchie, insaporita con spezie; se a prima vista rende diffidenti alla fine risulta comunque gustosa. Limitare gli alimenti di origine animale al Redaelli è una scelta ben precisa: qui si cura anche con la dieta, quella mediterranea.

L’eccessivo consumo di carne, oltre a effetti collaterali sulla salute, ne ha di altrettanto importanti sull’ambiente. Secondo la FAO, infatti, il 14% delle emissioni di gas ad effetto serra nel 2013 a livello mondiale erano dovute all’allevamento, e se la produzione mondiale di carne è dominata da suini e pollame, è proprio l’allevamento dei ruminanti (costituito per l’80% dai bovini) il principale responsabile delle emissioni. Da una parte i ruminanti emettono notevoli quantità di metano a causa della fermentazione enterica; dall’altra le loro deiezioni producono protossido di azoto.

Sul totale delle emissioni del settore dell’allevamento, secondo il Joint Research Centre della Commissione europea, la fermentazione enterica contribuisce per il 39% (sulla quale incidono soprattutto i bovini), e l’utilizzo e la gestione del letame per il 26%. Questi processi contribuiscono in così grande quantità al riscaldamento globale perché il metano e il protossido di azoto hanno un effetto serra rispettivamente 25 e 300 volte più elevato della CO2, a causa della loro struttura chimica e del diverso tempo di permanenza in atmosfera, come ha confermato l’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC). In merito all’impatto ambientale dell’alimentazione, tre ricercatori della Carnegie Mellon University di Pittsburgh (USA) hanno pubblicato a fine novembre 2015 uno studio che sembrava apparentemente smentire questi dati, tanto che uno dei firmatari, il professor Paul Fischbeck, ha affermato che “mangiare lattuga è tre volte peggiore, in quanto a emissioni di gas serra, che mangiare bacon”; la notizia è stata riportata, fra gli altri, da repubblica.it: “A parità di calorie -si poteva leggere- la produzione di melanzane e cetrioli consuma più acqua ed energia, producendo più gas serra”. 

In termini di calorie, 50 grammi di pancetta (la porzione per un piatto di pasta alla carbonara) equivalgono ad 1,6 chilogrammi di lattuga, cioè alla quantità di insalata che si può consumare in una settimana o due: quindi il confronto non regge. Il dottor Antonino Frustaglia, geriatra e cardiologo, lavora all’istituto Redaelli, dove si occupa anche di nutrizione. Ci spiega che “non è possibile confrontare gli alimenti a parità di calorie, perché il nostro corpo non ha bisogno solo di energia ma anche di altri componenti fondamentali, come le proteine e gli acidi grassi essenziali (da cui si traggono anche calorie, ma non solo), e poi le fibre e i micronutrienti (vitamine, minerali, etc) che non danno apporto di calorie”.

Ancor prima di fornire valori a parità di calorie, gli autori del citato studio Carnegie Mellon hanno utilizzato dati sull’emissione di gas serra per chilogrammo di alimento (tratti da uno studio di Heller e Keoleian dell’Università del Michigan). Da questi emerge che la carne bovina ha il valore maggiore (oltre 25 kg CO2eq per kg), seguita da burro e formaggi, le altre carni, le uova; al confronto, tutti gli altri alimenti -in particolare legumi, ortaggi, cereali e frutta- hanno emissioni almeno dieci volte inferiori, a parità di peso.

Questi dati di emissione per unità di peso sono indicativi ma non esaustivi; Frustaglia continua: “si potrebbero fare confronti tra alimenti a parità di nutrienti, ma è molto complesso: è più corretto confrontare le diete”.

Il titolo dell’articolo di repubblica.it riportava “La dieta vegetariana è nemica dell’ambiente” e in modo simile titolavano anche ansa.it, lastampa.it.

In realtà, le conclusioni contenute nello studio Carnegie sono differenti: le due diete raccomandate dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) nel 2010 hanno cioè impatti maggiori (soprattutto in termini di energia, quindi di acqua, infine di gas serra) rispetto all’attuale dieta statinutense corretta con una leggera diminuzione nelle quantità.

I media sono stati tratti in inganno dalla dichiarazione di Fischbeck: le diete consigliate dal USDA aumentano i latticini e riducono soprattutto zuccheri, grassi solidi e olii, e in minima parte la carne. Sono sì diete più salutari rispetto alle abitudini alimentari degli statunitensi, ma non sono affatto diete vegetariane.

Per vederci più chiaro abbiamo confrontato due diete -che non sono consigliate ma puramente esemplificative-, utili solo per confrontarne le emissioni di gas serra.

La prima si basa sul modello alimentare mediterraneo “moderno”, come lo definisce il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA, già INRAN), e sulle porzioni consigliate dallo stesso istituto nelle “Linee guida per una sana alimentazione italiana”. 

Nella suddivisione delle porzioni consigliate per i cibi proteici si è dato maggior peso alle carni rispetto ai legumi per renderle più simili al dato reale italiano: varie fonti indicano un consumo di circa 700 grammi a settimana.

L’altra è una dieta vegetariana, “nutrizionalmente valida -spiega Frustaglia- perché molto ricca di legumi, fondamentali per l’apporto proteico; abbinandoli a cereali integrali, invece che raffinati, si completa la gamma degli aminoacidi essenziali (cioè quelli che il corpo umano non può produrre autonomamente, ndr), proprio perché i cereali integrali compensano quelli non forniti dalle proteine dei legumi”.

Moltiplicando i dati di consumo (gr/settimana) per i dati di emissioni si ottengono i kg di CO2eq per alimento o gruppo di alimenti.

Tra la dieta ricca di carne e quella vegetariana risulta una differenza di 450 kg CO2eq/anno pari ad una riduzione del 34%. Questa quantità è equivalente alla CO2 emessa da un’auto nuova per percorrere circa 4.000 chilometri.

A conferma di questo risultato, una revisione di 14 studi scientifici sulle variazioni degli impatti del cambio di dieta in Europa riporta una riduzione tra dieta media attuale e dieta vegetariana compresa tra il 20 e il 35%, con una media di 540 kg CO2eq all’anno. Altri ricercatori della stessa Carnegie Mellon University, in uno studio del 2008, facevano notare che l’impatto (in termini di gas serra) generato dagli individui è in larga misura dovuto a tre fattori: il cibo, l’energia domestica e i trasporti. Di questi, è solo sul cibo che il consumatore ha un potere immediato; sugli altri le scelte sono a medio-lungo termine e maggiormente legate alle possibilità offerte dalla tecnologia o dalla società. 

Eva Alessi, responsabile sostenibilità di WWF Italia, ci conferma che il parametro CO2eq è il primo a cui rivolgere l’attenzione nello studio dell’impatto dell’alimentazione; basta considerare che “l’agricoltura, che nella sua definizione include la zootecnica, è responsabile di un terzo delle emissioni complessive di gas serra”.

Inoltre, escluse la Groenlandia e l’Antardide, “l’agricoltura occupa il 38-40% delle terre emerse; le restanti sono zone inadatte alla coltivazione o utilizzate per le infrastrutture: si potrebbe espandere ulteriormente solo in aree di pregio ambientale (foreste tropicali e savane) ma con danni enormi”.

“Secondo la FAO -continua Alessi- il 36% della produzione mondiale di cereali è impiegato per nutrire animali da carne e da latte. E per un chilogrammo di carne di manzo servono oltre 10mila litri di acqua per la produzione dei mangimi necessari, costituiti da 15 kg di cereali e soia”.

“Non dobbiamo scegliere tutti una dieta vegetariana o vegana -conclude Alessi- ma ridurre drasticamente il consumo di carne, questo sì. In Italia andrebbe almeno dimezzato”.

Per avere un’indicazione su consumo di carne e salute, vanno considerate le raccomandazioni del Fondo mondiale per la ricerca sul cancro (WCRF) riprese anche dall’Istituto italiano tumori: si consiglia di limitare il consumo di carni rosse (manzo, maiale, agnello e capra) sotto i 500 grammi a settimana, e ridurre al minimo o evitare del tutto il consumo di carne conservata (affumicata, trattata o salata, o contenente conservanti chimici). Non a caso l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC, organo dell’OMS) ha inserito la carne lavorata tra i “cancerogeni”.

Gli italiani consumano molta carne conservata o lavorata: 175 grammi a settimana, secondo alcune associazioni di produttori di carne (carnisostenibili.it). Eppure la dieta mediterranea è stata inserita nel 2010 dall’UNESCO nel patrimonio culturale immateriale dell’umanità; “è un bene che abbiamo da millenni senza averne consapevolezza -spiega Frustaglia, medico del Redaelli-. Prevede un basso consumo di carni rosse, intorno a 1-2 volte alla settimana, come accadeva fino alla fine degli anni 50, mentre oggi spesso viene consumata quasi quotidianamente”. I consumi sono esplosi nei primi anni 60. Come al solito a porre problemi è stato il consumismo più che il consumo. Lo slogan “non han mai fatto male tre fette di salame” era reale quando le tre fette di salume erano consumate una o due volte a settimana.

All’istituto geriatrico Redaelli i pazienti sono circa 500, in maggioranza lungodegenti che lì restano per mesi o anni, a cui si cerca di restituire le capacità personali residue, soprattutto motorie.

“Negli ospedali in cui i pazienti sono ricoverati per un tempo limitato, l’incidenza dell’alimentazione è relativa, mentre in una struttura di lungodegenza si può fare un buon lavoro di supporto con una dieta più salubre possibile”, dice Frustaglia.

Esclusi i pazienti con patologie particolari, agli altri vengono proposte diete a basso contenuto di proteine animali, al massimo nell’ordine di 1 o 2 porzioni alla settimana per ciascuno dei seguenti alimenti: carne rossa, carne bianca, derivati del latte, uova.

In cucina c’è stata una rivoluzione: man mano che aumentava la consapevolezza sull’uso di alimenti non animali, venivano introdotti, uno alla volta, i legumi, che rispetto alla carne (molto più facile da cucinare) vanno preparati, cotti, asciugati ed elaborati. C’è anche un vantaggio economico: “se un chilogrammo di carne costa 3 o 4 euro all’ingrosso, un chilogrammo di legumi ne costa meno di uno”. 

“Nei dati preliminari dello studio che stiamo completando, in collaborazione con l’Università di Milano-Bicocca, abbiamo notato che non ci sono perdite di vitamine importanti (come la B12 o la D) né anemia. Sembrerebbe che nei tempi di degenza, che talvolta si riducono, una dieta mediterranea possa aiutare il recupero motorio, e magari anche le performance psichiche.

La nostra intenzione è anche di far parsimonia dell’uso di certi farmaci, che hanno comunque effetti collaterali. È noto che il grasso favorisce la formazione di trombi: a un iperteso con colesterolo alto, forse, posso dimezzare l’aspirina utilizzando una dieta povera di grassi animali”.

Inoltre, diminuire la produzione di mangimi è un atto responsabile perché libera risorse agricole da destinare direttamente all’alimentazione umana. Con questa consapevolezza, oltre ai benefici per la salute e per l’ambiente, c’è ancora più gusto a ridurre il consumo di carne. 

 

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati