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La deriva fiscale dei Comuni, dimenticati dal governo

Non esiste più per i sindaci alcuna possibilità di agire sulle aliquote delle imposte locali, e l’unica capacità di prelievo modulabile è la richiesta di compartecipazione alla spesa rivolta ai cittadini utenti per la copertura dei servizi a domanda individuale, come asili o mense scolastiche

Antonio Decaro, sindaco di Bari, interviene all'assemblea dell'ANCI, che lo ha eletto presidente nell'ottobre del 2016 - https://www.facebook.com/antonio.decaro.5?fref=ts

Esiste una parte dell’architettura istituzionale del nostro Paese che è soltanto sfiorata dalla riforma costituzionale oggetto del referendum, anche se rappresenta uno snodo cruciale per il buon funzionamento del sistema economico e sociale italiano. Si tratta dell’autonomia dei Comuni, sempre più ridotta all’osso su molteplici versanti, a cominciare da quello fiscale.

Ormai non esiste più per gli enti locali alcuna possibilità di agire sulle aliquote delle imposte locali, bloccate da tempo e dunque di fatto decise dal centro. Dopo l’abolizione della Tasi sulla prima casa è venuta meno anche questa leva, di fatto sostituita da un trasferimento la cui entità è decisa ancora una volta dal centro che la determina, anno per anno, considerando certamente in misura maggiore le esigenze del bilancio dello Stato, in particolare delle spese dei ministeri, piuttosto che in base alle reali stime del gettito esistente nei vari territori, privati appunto di tale gettito. Sono congelati anche i cosiddetti tributi minori, mentre la Tari -la “tassa” sui rifiuti- è in realtà una tassa di scopo, finalizzata unicamente a coprire il costo del servizio e dunque priva della possibilità di contribuire alla fiscalità generale dei Comuni stessi. Certo, una simile ibernazione delle imposte locali consente di gridare con convinzione che le tasse non aumentano ma produce, soprattutto per il modo con cui è realizzata, tre conseguenze di rilievo.

La prima, e forse più evidente, perché tende ad indebolire la nozione stessa di cittadinanza, consiste nell’offuscamento della responsabilità fiscale per cui i Comuni, non potendo stabilire in alcun modo un legame virtuoso tra quanto prelevano ai propri cittadini e quanto e come spendono nei servizi e nelle opere a loro destinati, non sono realmente giudicabili nell’azione amministrativa, almeno su questo fondamentale aspetto del rapporto tra entrate e uscite pubbliche. In altre parole, i Comuni sono giudicabili, in maniera paradossale, al netto della capacità di recupero dell’evasione fiscale, solo sul versante della spesa e non su quello dell’entrata.

Se a ciò si aggiunge che anche le tariffe dell’acqua e i biglietti del trasporto pubblico locale non sono nelle mani dei Comuni, se non in maniera assai indiretta, è evidente la loro marcata perdita di autonomia rispetto alla capacità di modulare e di rendere più equo il proprio sistema fiscale. La seconda conseguenza consiste nella vanificazione di qualsiasi ipotesi di definizione credibile dei costi e dei fabbisogni standard, su cui avrebbe dovuta essere verificata l’efficienza dei Comuni. Questi rischiano di risultare, date le attuali condizioni, una mera fotografia di una possibile soluzione ottimale per il funzionamento della macchina amministrativa, senza un concreto atterraggio sulle dimensioni reali degli stessi Comuni perché privati, appunto, di una modulabile capacità di prelievo fiscale.  In tal senso, il superamento della serie storica della spesa dei Comuni come criterio per l’attribuzione delle risorse resta svincolato da un analogo abbandono delle entrate “storiche”, relative agli anni precedenti, come unico criterio per definire il livello della pressione fiscale.

In altre parole, è molto difficile essere virtuosi solo sul versante delle uscite senza la leva delle entrate che, peraltro, non possono neppure essere semplificate come dimostra il rifiuto opposto dal governo all’accorpamento di Imu e Tasi, due tributi totalmente identici sia per base imponibile, sia per riferimento alla rendita catastale, neppure a parità di prelievo complessivo.

La terza conseguenza è rintracciabile nell’individuazione della pressoché unica capacità di prelievo modulabile da parte dei Comuni nella richiesta di compartecipazione alla spesa rivolta ai cittadini utenti per la copertura dei servizi a domanda individuale, dagli asili nido, alle mense scolastiche, fino ai pulmini, tutti dal chiaro valore sociale. Il rischio vero, insito in una simile prospettiva, è che senza l’autonomia dei Comuni sul piano della fiscalità generale, la partita delle risorse si giochi quasi esclusivamente così: una partita quindi molto pesante soprattutto per le fasce più deboli che rischiano comunque di non essere in grado di pagare le loro quote. Una partita che potrebbe, forse, favorire la progressiva esternalizzazione di molti dei servizi prima ricordati, con una maggiore presenza di attori privati. Non giovano all’autonomia dei Comuni nemmeno due altri aspetti ancora più specifici; non è stato definito in accordo con i Comuni il contributo che tali enti devono fornire al Fondo di solidarietà comunale, che dovrebbe consentire agli enti locali più “poveri” di beneficiare della solidarietà di quelli “ricchi”, all’interno di parametri virtuosi, così da pervenire a una perequazione condivisa.

È davvero poco credibile una solidarietà decisa dall’alto; l’impressione che si ricava da siffatto quadro è quella della volontà di condizionare in maniera avvertibile le istanze locali al disegno più generale della finanza pubblica, quasi che esistesse un doppio registro della flessibilità, praticabile a livello centrale e non permessa invece sui scala territoriale dove ogni allentamento viene ritenuto pericolosamente localistico.
In modo analogo non favorisce l’autonomia dei Comuni neppure la nuova tendenza da parte del governo di finanziare, peraltro con cifre molto importanti, i cosiddetti “patti per le città”: l’idea di concedere maxi-finanziamenti governativi ad alcune città strategiche ha sicuramente una logica e muove dal presupposto che  circa l’80% del Pil italiano si concentra nelle maggiori 100 città italiane, dove risiede il 67% della popolazione. Il pericolo, tuttavia, è quello di un progressivo depauperamento dei centri medio piccoli, destinati a divenire satelliti più o meno organici dei centri più grandi; un processo di metropolizzazione coartata dalla messa a disposizione delle risorse finanziarie, deliberata dall’alto che può determinare una rapida modificazione del paesaggio urbano del nostro Paese con il pericolo di un’altrettanto rapida trasformazione di tanti luoghi urbani in sterminate periferie sociali.

Per compensare una simile scelta molto selettiva, il governo ha deliberato il finanziamento di  tutti i progetti di riqualificazione urbana presentati da tutti i comuni capoluogo, con l’obiettivo di combattere proprio il disagio urbano e la periferizzazione di molti centri medio piccoli. Tali progetti però, per essere efficaci, devono avere la forza di ricostruire tessuti di comunità, con la piena valorizzazione del ruolo dell’ente locale, e dunque non possono essere episodici e ridotti a una dimensione soltanto urbanistico-edilizia. In estrema sintesi, la questione dell’autonomia dei Comuni, molto trascurata, ha a che fare con la rigenerazione della loro identità e del loro funzionamento, ancora fermo al testo unico 2000, che deve costituire un tratto portante di una riformata architettura istituzionale.

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