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Opinioni

La crisi dell’Inps parla all’Italia

Dal 2009 ad oggi sono "spariti" 2 milioni di contribuenti: il patrimonio -crollato tra il 2011 e il 2012 da 41 a 22 miliardi di euro- rischia di esaurirsi in pochi anni. "I meccanismi della contribuzione previdenziale, affondati dalla crisi, non sono capaci di mantenere gli attuali livelli di welfare" scrive Alessandro Volpi, il cui ultimo libro per Altreconomia edizione è "La globalizzazione dalla culla alla crisi"

L’allarme lanciato dal presidente dell’Inps sulla tenuta dei conti dell’ente costituisce un dato molto preoccupante perché denuncia, purtroppo, un dato strutturale. Dal 2009 ad oggi sono spariti, per effetto della crisi, due milioni di contribuenti, cittadini che hanno perso il lavoro, sono finiti in mobilità o sono stati almeno parzialmente protetti dalla Cassa integrazione. 
Ciò significa, come ha notato Alberto Brambilla, che la gestione delle prestazioni temporanee ha un rosso di 10-15 miliardi di euro. La crisi espelle lavoratori, cancella contribuenti e quindi sottrae linfa alla previdenza, che subisce anche un brutale blocco del turn over nelle amministrazioni pubbliche.

A ciò deve essere aggiunto un altro dato, ugualmente ansiogeno, dovuto al fatto che l’Inps ha importato nei propri conti il colossale buco del bilancio Inpdap, determinato dal mancato versamento da parte dello Stato dei contributi dei propri dipendenti, almeno fino al 1997. 
In queste condizioni, l’Inpdap ha scaricato sull’Inps un disavanzo patrimoniale di oltre 17 miliardi, costringendo la stessa Inps a dimezzare il suo patrimonio, crollato tra il 2011 e il 2012 da 41 a 22 miliardi di euro. Proseguendo lungo questa strada il patrimonio della previdenza italiana rischia di azzerarsi in pochi anni. Peraltro questo buco potrebbe avere un peso decisivo nell’affondare il già pericolante deficit dello Stato con conseguenti ricadute negative in materia di rispetto dei vincoli europei. 
Finora quest’impatto non si è consumato perché il Tesoro ha proceduto ad anticipare liquidità trasformando debiti in crediti, e rinviando un problema molto spinoso.

Si tratta però di una situazione non sostenibile a lungo, se non varando ulteriori tornate di spending review -come del resto pare pronosticare lo stesso Commissario Cottarelli quando sostiene che i 500 milioni inseriti nella Legge di Stabilità sono solo l’indicazione della soglia minima- o ulteriori, sempre meno proponibili, aumenti di imposte. 
Gli affanni dell’Inps derivano da un grande cambiamento avvenuto nella società italiana dove sta rapidamente riducendosi la platea degli occupati a tempo indeterminato e soprattutto dove sta arretrando vistosamente, ben oltre i numeri del Pil, la capacità di generare redditi “consolidati”. Il Paese vive l’età dell’incertezza, dell’instabilità e della volatilità e in simili condizioni il sistema delle tutele sociali, tanto più necessario, è costretto ad un continuo arretramento, perché i meccanismi della contribuzione previdenziale, affondati dalla crisi, non sono capaci di mantenere gli attuali livelli di welfare. A queste difficoltà, la Commissione europea sembra del tutto disinteressata pronunciando una esplicita critica nei confronti del governo italiano proprio per l’eccessiva timidezza manifestata dal nostro Paese nel seguire il cammino delle riforme strutturali. Abbiamo intrapreso una dura riforma del sistema pensionistico che non pare in grado, però, di mettere completamente le pensioni in sicurezza nel breve periodo, anche perché la crisi brucia posti di lavoro e chiede costosi ammorizzatori sociali. L’Europa, però, ci domanda ancora maggiore rigore, quasi non capendo quanto sta avvenendo. 

È surreale che la stessa Commissione europea che apre un’indagine sulla Germania, sospettata di creare squilibri macroeconomici per il surplus della sua bilancia commerciale, ripeta ancora la litania del rigorismo più stretto. Senza una reale ripresa dell’occupazione nessuna riforma strutturale, in primis quella previdenziale, sarà capace di ridurre il deficit, ma anzi finirà per appesantirlo e per renderlo sempre maggiore rispetto al Pil. In uno scenario del genere, dominato dal declino doloroso dei ruoli socialmente definiti, fa sorridere l’accanimento della polemica sulle tessere d’iscrizione ai partiti. Questo tipo di adesione formale era l’espressione più naturale di una società con rappresentazioni sociali definite e durevoli sulle quali si costruiva il contenuto dell’ideologia. Ora, con la scomparsa di tali rappresentazioni, le tessere di partiti rischiano di essere simili a quelle dei club, occasionali e di breve scadenza. Possono essere ancora il nodo della discussione politica?

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