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La crisi del “sistema” dei docenti di sostegno mette a rischio l’inclusione

Le recenti riforme del ministero dell’Istruzione sulla formazione degli insegnanti non rispondono alle esigenze di una scuola sempre più segnata dal precariato e dall’eterogeneità degli alunni. E a risentirne è la qualità della didattica nelle classi
Sono mesi decisivi per il sistema del sostegno didattico agli studenti con disabilità, conosciuto più semplicemente come insegnamento di sostegno. Entro primavera saranno infatti emanati i decreti attuativi che definiranno nel dettaglio le modalità con cui si terranno i cosiddetti “corsi Indire”, ovvero i percorsi di formazione attivati dall’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (Indire), introdotti dal decreto legge 71 del 2024.
Questi percorsi formativi -di cui ancora non si conoscono nel dettaglio i criteri di ammissibilità, i contenuti formativi, i costi etc.- sono lo strumento che il ministero dell’Istruzione e del merito ha pensato per rispondere alla carenza di docenti specializzati, cioè coloro che hanno conseguito un titolo professionalizzante denominato Tirocinio formativo attivo (Tfa). Secondo quanto riportato dal ministro Giuseppe Valditara nel luglio 2024 sono infatti circa 85mila i docenti sul sostegno che oggi lavorano senza adeguata formazione, mentre le università non riescono a garantire più di 30mila posti di Tfa all’anno.

Unicità e vanto della scuola italiana, oggi questo sistema fa i conti però con l’aumento del numero degli studenti che presentano una certificazione che attesta una disabilità. Secondo i dati del ministero dell’Istruzione e del merito, sono infatti aumentati quasi del 30% dall’anno scolastico 2018/2019 al 2024/2025, passando da 256.296 a 331.124 (circa il 5% del totale). Una crescita che si traduce in un maggiore fabbisogno di docenti sul sostegno i cui posti sono però diminuiti nel giro di un anno, passando da 234.460 agli attuali 205.253.
Il dubbio è se questo provvedimento sia quello di cui la scuola abbia realmente necessità. Il vero problema è infatti il numero elevato di precari tra gli insegnanti sul sostegno. Uno su due sono infatti supplenti assunti con contratto a tempo determinato e che ogni anno potrebbero cambiare la scuola a cui sono assegnati. Inoltre i dati disponibili degli uffici scolastici regionali dimostrano come i docenti specializzati non manchino, ma siano collocati nei posti sbagliati. A livello territoriale risultano infatti concentrati al Centro-Sud, mentre per quanto riguarda il grado di scuola, emerge che solamente per la scuola dell’infanzia e primaria sarebbe veramente necessario un intervento per aumentare il numero di docenti specializzati sul sostegno.
Gli insegnanti sul sostegno precari sono circa la metà del loro totale. Questi docenti sono supplenti assunti con contratto a tempo determinato e che ogni anno potrebbero cambiare la scuola a cui sono assegnati, con evidenti ripercussioni sugli alunni con disabilità
“Se i ‘corsi Indire’ fossero pianificati a livello territoriale e a livello di grado di scuola, potrebbero anche avere un senso, perché il fabbisogno di docenti sul sostegno c’è”, affermano Federica Voci e Claudia Saputo, due insegnanti che gestiscono il gruppo “Il prof specializzato” e che insieme a centinaia di colleghi e con il supporto dei sindacati hanno partecipato all’ultima manifestazione del 3 gennaio di quest’anno davanti al ministero dell’Istruzione, per denunciare la situazione della propria categoria.
“Se i ‘corsi Indire’ fossero pianificati a livello territoriale e a livello di grado di scuola, potrebbero anche avere un senso, perché il fabbisogno di docenti sul sostegno c’è” – Federica Voci e Claudia Saputo
“Rimangono dei dubbi sulla loro qualità e sul fatto che un percorso di formazione -quello previsto dal Tfa- che normalmente dura un anno accademico, in presenza, con tre prove preselettive, laboratori, esami intermedi e un tirocinio di 150 ore nelle scuole, venga ridotto alla metà dei crediti formativi universitari”.
Il primo elemento che non convince dei “corsi Indire” è il fatto che prevedono il conseguimento di trenta crediti formativi, tanto che Dario Ianes, professore di pedagogia e didattica speciale all’Università di Bolzano, co-fondatore del Centro studi Erickson, li ha ridenominati “i corsi dello schiaffo” dato a quelli che stanno o hanno conseguito i 60 crediti formativi previsti del Tfa.
Il secondo aspetto riguarda invece a chi sono rivolti. Potranno infatti parteciparvi due categorie di docenti: coloro che hanno maturato tre anni di esperienza come docenti con incarico sul sostegno negli ultimi cinque anni e coloro che hanno conseguito una specializzazione presso un’università estera, purché rinuncino al procedimento di riconoscimento del titolo di formazione da parte dello Stato.
In riferimento ai primi, Manuela Pascarella della Flc Cgil, precisa che l’esperienza era già stata tenuta in considerazione “grazie a meccanismi di facilitazione nell’accesso al Tfa (esoneri dalle prove preselettive o quote riservate) e non di dequalificazione del percorso formativo”.Per quanto riguarda invece i Tfa conseguiti all’estero, il discorso è più complesso.
La Flc Cgil definisce le misure introdotte dal decreto 71 come una vera e propria sanatoria “per non essere riusciti ad affrontare la valutazione delle richieste di riconoscimento di questi titoli entro i termini stabiliti”, osserva Pascarella. Secondo quanto riferito dal ministro Valditara si tratta di circa 14mila istanze, un numero importante che il ministero avrebbe dovuto analizzare una per una, come richiesto dal Consiglio di Stato e che quindi ha deciso di appaltare, con il decreto legge 44, a un altro ente, il Centro di informazione sulla mobilità educativa e accademica (Cimea).
Nel frattempo, in attesa del riconoscimento del titolo estero, i docenti che hanno un procedimento pendente sono però stati trattati al pari di quelli con un titolo pienamente valido. Dal 2024 hanno potuto stipulare contratti a tempo determinato, cioè lavorare come supplenti, inserendosi con il loro punteggio nelle medesime graduatorie di chi ha portato a termine il Tfa.
Non entrando nel merito delle inchieste che hanno fatto emergere come questi corsi all’estero talvolta siano delle scorciatoie, se non delle vere e proprie compravendite di titoli che rischiano di essere alimentate dalla situazione di precariato dei docenti, rimangono alcuni punti di domanda. Anche Evelina Chiocca, già presidente del Coordinamento italiano insegnanti di sostegno, si pone alcuni quesiti: “Come è possibile conseguire una specializzazione per le attività di sostegno valida per la scuola italiana in un Paese in cui l’inclusione scolastica non esiste? Non mi risulta ad oggi che l’esperienza italiana sia replicata in altre nazioni che appartengono all’Unione europea”.
Per comprendere meglio il ruolo dell’insegnante di sostegno si deve partire infatti dal principio dell’inclusione e dal lungo percorso verso la sua affermazione nella scuola italiana, iniziato negli anni Settanta del secolo scorso e confluito nella legge 104 del 1992. Cinquant’anni fa si è deciso di puntare sulla figura del docente specializzato, in concomitanza con l’abolizione delle classi differenziali, così che tutti gli alunni potessero studiare insieme nelle “classi comuni”. Oggi questo concetto è sotto attacco e rischia di diventare solo una bella parola svuotata del suo significato.
Sono state 14 mila le richieste di conversione dei Tfa conseguiti all’estero da docenti di sostegno. Per loro, il decreto 71 rappresenta una vera e propria sanatoria
A fare le spese di questa situazione sono infatti, in primo luogo, gli studenti che già si trovano in una condizione di particolare vulnerabilità e a risentirne è la didattica nelle classi. “Non è questa la via per realizzare la scuola dell’inclusione, se si vuole garantire alla scuola personale veramente qualificato che assicuri davvero successo formativo a ciascun alunno -prosegue Chiocca-. Se l’inclusione è l’obiettivo, allora bisogna operare una scelta coerente, ovvero agire sulla formazione di tutto il personale docente e dirigente. Diffondere la cultura dell’inclusione richiede la collaborazione e la condivisione della responsabilità da parte di tutti gli insegnanti. I docenti competenti, presenti in ogni classe, possono garantire la qualità dell’inclusione e della proposta didattica. Chiaramente la risorsa a sostegno deve essere garantita, così come richiesto. Ma la qualità deve essere assicurata e ciò sarà possibile unicamente grazie alla formazione, che non può essere ancora aggiuntiva e tanto meno ‘offerta al ribasso’”.
“Non è questa la via per realizzare la scuola dell’inclusione, se si vuole garantire alla scuola personale veramente qualificato che assicuri davvero successo formativo a ciascun alunno” – Evelina Chiocca
Partendo dagli stessi presupposti Dario Ianes arriva però a una proposta differente. Il professore che era tra coloro che hanno contribuito a scrivere il decreto che nel 2011 ha stabilito i requisiti per l’istituzione e l’attivazione dei Tfa, si pone in rottura con l’impianto precedente: “La crisi del sostegno è strutturale e irreversibile. Bisognerebbe dunque avere il coraggio di cambiare il paradigma, di andare oltre, di azzerare il sistema per farlo evolvere”. Secondo il professore, infatti, alle radici dei problemi citati, “sempre diversi ma in fondo sempre gli stessi”, c’è il fatto che il docente specializzato esiste in quanto esistono gli alunni con disabilità, e non gli alunni in generale.
“La crisi del sostegno è strutturale e irreversibile. Bisognerebbe dunque avere il coraggio di cambiare il paradigma, di andare oltre, di azzerare il sistema per farlo evolvere” – Dario Ianes
La normativa prevede che l’attività di quest’ultimo è rivolta alla classe in cui è iscritto lo studente con la certificazione, tuttavia, “questa fragilità di fondo ha finito per significare in molti casi delega al docente di sostegno da parte degli altri insegnanti. La delega ha portato, a sua volta, alla creazione di un percorso distinto: prima della separazione degli alunni c’è stata quindi quella dei docenti”.
Dopo aver osservato e studiato il sistema per quarant’anni, Ianes propone che l’80% dei docenti di sostegno tornino a essere curricolari, cioè a insegnare la loro materia. “In questo modo ci sarebbero due insegnanti di lettere o due di matematica o scienze per classe, a fare che cosa? A fare didattica inclusiva per tutti. Oggi le classi sono caratterizzate da una forte un’eterogeneità per cui, oltre alla disabilità, ci sono i disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), i bisogni educativi speciali (Bes), gli studenti con background migratorio e sempre di più quelli con problemi comportamentali. I docenti sanno come portare avanti un tipo di apprendimento diverso, più cooperativo e meno frontale, ma non riescono a farlo perché da soli è difficile gestire una classe di più di venti alunni”. Il restante 20% diventerebbe invece un gruppo di docenti esperti di supporto itinerante per gli altri. “Farebbero un lavoro peer to peer non a contatto con gli alunni ma con i colleghi, girando tra le scuole. Questi potrebbero essere gli insegnanti formati dalle università attraverso scuole di specializzazione al pari di quelle di medicina”.
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