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Opinioni

La corsa al decreto e un Parlamento miope

Il "Salva-Roma" è l’emblema della caoticità del Paese. E il "Milleproroghe" rappresenta l’essenza di una classe politica che promuove interessi particolari ed è incapace di governare l’Italia e di disegnare in modo strutturato il nostro futuro. L’analisi di Alessandro Volpi

Il ritiro del decreto Salva-Roma costituisce una buona notizia ma è al tempo stesso l’espressione più chiara della caoticità dell’attuale quadro politico italiano. 
Il decreto era stato inizialmente concepito per evitare di fatto il fallimento del Comune capitolino, alle prese con un debito esploso oltre ogni misura e non sanabile con le sole risorse dei cittadini romani né con improbabili piani di rientro. La soluzione è stata trovata così, come per altri comuni -vedi Venezia- e come potrà accadere per altri ancora, a cominciare da Torino e Milano, scaricando gli oneri del risanamento sulla fiscalità generale. A questa originaria anomalia se ne è aggiunta subito un’altra, rappresentata dall’assalto di una infinita litania di emendamenti che ha trasformato il Salva-Roma in un omnibus con tanti interventi a pioggia distribuiti tra luoghi, istituti e opere assai variegati.

Di fronte ad una simile forzatura è intervenuto il presidente Napolitano, chiedendo di fatto il ritiro del provvedimento, in cui erano stati aggiunti ben 90 commi ulteriori, che ne snaturavano la coerenza e lo rendevano ben altra cosa da quanto votato, peraltro con la fiducia, nell’aula parlamentare. 
Il premier Letta ha proceduto in tal senso ma ha prontamente deciso di trasferire buona parte del Salva-Roma nel “Milleproroghe”, l’ormai consueto veicolo normativo che dopo la modifica della vecchia legge finanziaria in Legge di Stabilità ha assunto il carattere di contenitore di ogni misura non collocata e, soprattutto, non collocabile altrove. In pratica si è saltati da un treno straordinario ad un altro treno straordinario, facendo una rapida opera di cosmesi e senza alcun reale passaggio parlamentare.

Parallelamente a tutto ciò, dopo l’approvazione della Legge di Stabilità, il Consiglio dei ministri ha licenziato un testo che contiene un saldo di oltre 6 miliardi di euro e che ha ad oggetto la riprogrammazione di una tranche importante dei fondi europei, altrimenti destinata a scadere e dunque ad essere restituita all’Europa per prendere la destinazione di altri Paesi membri. Si tratta di un intervento tutt’altro che trascurabile, perché rivolto a rendere più efficaci e più consistenti gli stimoli per la nuova occupazione e per la creazione di nuova imprenditoria giovanile; un pezzo dunque di strategia in materia di lavoro che non è finita nella Legge di Stabilità e che, ancora una volta, non ha trovato il tempo e lo spazio di una discussione parlamentare. 
Il 2013 sta concludendosi così con un vero e proprio ingorgo normativo, composto da decreti legge, sempre e comunque, definiti come urgenti, e, spesso addirittura sovrapponibili nei contenuti. È evidente che una successione siffatta di provvedimenti sancisce il declino dell’attività parlamentare non solo sul versante dei lavori in commissione e in aula, ma persino su quello della mera conversione in legge.

Le Camere paiono nelle mani dei tecnici -non di quelli “prestati” alla politica quanto dei burocratici degli uffici istituzionali- che strutturano e alterano le varie misure fornendo alla politica in cerca di consenso soluzioni sempre al limite, se non già oltre, la correttezza delle prassi. Mentre il dibattito verte sul futuribile -dal mercato del lavoro al fisco- la quotidianità delle Camere è composta di atti sempre episodici e cuciti da “ingegneri della legislazione al dettaglio”. I parlamentari intanto indugiano nella predisposizione di migliaia di emendamenti che oscillano fra il manifesto politico e l’esigenza di dare rappresentanza compiuta a molteplici istanze da scaricare sul veicolo normativo di turno, senza andare troppo nel sottile. Tra norme tecniche e emendamenti più o meno abortiti gli spazi della politica sono davvero angusti: l’endemica crisi dei partiti, le incertezze dei gruppi parlamentari nuovi e persino la scarsità di risorse conducono alla rinuncia delle grandi visioni d’insieme e alla loro sostituzione con una costante sequela di piccoli provvedimenti, paradossalmente più facili da finanziare, che viaggiano su decreti legge sempre meno urgenti e sempre più dipendenti dalle prerogative delle burocrazie di costruire misure ad hoc. Ma la somma degli interessi particolari, anche dei più legittimi, non si traduce in interesse generale. 

* Università di Pisa

 

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