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La comprensione del detenuto

Le carceri sono al collasso. Se ne sono resi conto, in Veneto, i giudici che le hanno visitate. Una missione istruttiva, da cui nasce l’invito a lasciarsi guidare, nei propri giudizi, (anche) dall’empatia

Tratto da Altreconomia 135 — Febbraio 2012

Barack Obama, per la sua prima nomina di un giudice alla Corte Suprema Usa, indicò l’“empatia”, la capacità di comprensione e identificazione, come un “essenziale ingrediente per arrivare a giuste decisioni e risultati”. I critici conservatori denunciarono il tentativo di rispolverare l’attivismo giudiziale in favore di determinate classi o categorie in vista di una giustizia orientata, in contrapposizione all’idea di una giustizia imparziale, bendata, che non conosce o s’identifica con alcuno.
Il riferimento alla capacità d’immedesimazione nelle situazioni, di mettersi nei panni di chi è soggetto al potere altrui, alludeva a una migliore comprensione di ciò che sta alla base delle richieste di giustizia, non certo ad abdicare al dovere di applicare le leggi. Questo aspetto torna in mente riflettendo su una recente esperienza, che in merito a uno dei fronti più drammatici, quello delle carceri, evidenzia quanto sia davvero auspicabile che i giudici vadano oltre ciò che appare dalle carte che leggono. Un gruppo di magistrati del Veneto ha visitato il carcere per conoscere di persona cosa accade dietro le sbarre a coloro cui è inflitta una condanna o applicata una misura cautelare.Chi non fa il magistrato di sorveglianza, infatti, non immagina ciò che consegue al provvedimento di restrizione che adotta, non percepisce la differenza tra chi sconta una pena in un dato modo e chi per condizioni personali in un altro, tra chi ha disponibilità d’una dimora per una misura alternativa o per gli arresti domiciliari e chi non l’ha. Non può comprendere gli effetti della sua statuizione quando rigetta un’istanza di remissione in libertà, anche a chi deve scontare una pena breve, motivando che rimanere in cella scongiura il pericolo della reiterazione del reato. I lunghi tempi per la condanna definitiva inducono a utilizzare la custodia cautelare come una scorciatoia per far scontare in via anticipata la pena, ipotizzando un effetto deterrente. La detenzione cautelare (45% dei detenuti) non ha l’obiettivo del recupero, perché i programmi rieducativi sono attivi solo in caso di esecuzione delle pene definitive. Il pericolo di recidiva così di fatto aumenta, anche se il giudice ha scritto e motivato, inconsapevolmente, il contrario. Dalle visite effettuate dal gruppo di magistrati alle due carceri padovane -la Casa circondariale, ove sono ristretti i detenuti in attesa di giudizio o con condanne brevi, e quella di reclusione, per le pene definitive più gravi- è emerso che (al 30 novembre scorso) si contavano rispettivamente 228 presenze, contro una capienza di 90 unità, e 826 presenze su 439 posti. In tutto il Veneto i detenuti erano 3.205, benché la capienza regolamentare sia di 1.972. Analoga e talora deteriore la situazione sull’intero territorio nazionale. La Corte di Strasburgo ha già riconosciuto, anche per l’Italia, che a causa del sovraffollamento le condizioni carcerarie violavano l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il divieto di trattamenti inumani e degradanti. Altrove la crisi del sistema è vicina al punto di rottura e rischia di ridurre le carceri in strumenti di tortura. Negli Usa (ove circa un adulto su 100 è detenuto) la Corte Suprema l’anno scorso, riconoscendo gravi violazioni costituzionali (l’8° emendamento bandisce i trattamenti crudeli e fuori dal comune), ha ordinato allo Stato della California di ridurre la popolazione carceraria fino al 137,5% della capienza. Disastrose le condizioni per il sovraffollamento e la mancanza di adeguate cure mediche e psichiatriche. Per questo “un detenuto nelle prigioni californiane muore senza ragione ogni sei o sette giorni”, una situazione che è “incompatibile con il concetto di dignità umana e che non ha posto nelle società civili”. Per concludere ai giudici basta allegare alle motivazioni eloquenti fotografie scattate nelle carceri. Alla data del 25 dicembre 2011 nel Regno Unito (uno dei Paesi europei con più detenuti) si è raggiunto il picco massimo dell’affollamento, nonostante negli ultimi anni sia stato fatto ricorso alla gestione privata di alcune carceri, a liberazioni anticipate e a celle di detenzione nelle stazioni di polizia (le “nuove” proposte escogitate in Italia dal nuovo governo), pannicelli caldi per una situazione strutturalmente intollerabile. Chiare le indicazioni che provengono dalle diffuse esperienze negative. Il carcere è efficace deterrente e non genera recidiva solo se si occupa del detenuto con programmi di recupero e non quando provoca sofferenza inutile. È probabile che ciò che le opzioni politiche e culturali non sono riuscite a comprendere, ora sia il deficit di risorse a imporlo. Prima che il legislatore trovi il rimedio strutturale, l’assicurazione del livello di civiltà, qui e ora, è soprattutto nelle mani dei giudici. È bene che ne siano (empaticamente) consapevoli. —

* sostituto procuratore generale a Genova

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